Lettera agli Ebrei 4:1-16
Approfondimenti
la promessa di entrare nel suo riposo è ancora valida Sotto la guida dello spirito santo, Paolo indica che le parole di Dio messe per iscritto da Davide e riportate in Sl 95:11 non erano solamente un giudizio contro il Suo popolo ribelle; contenevano infatti anche una promessa. È vero, gli israeliti non entrarono nel riposo di Dio, ma la lettera agli Ebrei non si sofferma sui loro errori. Al contrario, introduce un argomento avvincente: la promessa di entrare nel suo riposo “è ancora valida”, nel senso che i cristiani ne possono beneficiare. (Vedi approfondimenti a Eb 4:3, 10.) Nella lettera agli Ebrei questa è la prima di tante volte in cui Paolo parla di una “promessa” fatta da Dio. (Alcuni esempi si trovano in Eb 6:12, 17; 9:15; 10:36; 11:9.) Si tratta di un concetto molto incoraggiante, dato che nella letteratura greca extrabiblica era molto raro leggere di un dio che facesse promesse agli esseri umani.
stiamo attenti Lett. “temiamo”, “dobbiamo aver timore”. Un commentario spiega che “il tipo di timore che si incoraggia ad avere qui è quello che spinge a mostrare cautela e attenzione”.
ne sia considerato indegno Gli israeliti ribelli non avevano agito in armonia con l’avanzamento del proposito di Dio. Avevano quindi perso la possibilità di entrare nel suo riposo. Il loro atteggiamento ribelle non li rese idonei per entrare nella Terra Promessa. (Vedi approfondimento a Eb 3:11.) Paolo quindi esorta i cristiani ebrei a evitare di comportarsi in un modo che possa impedire loro di entrare nel promesso riposo.
anche a noi è stata annunciata la buona notizia Geova annunciò buone notizie agli israeliti dopo l’esodo. Tra le promesse che fece loro disse che, se avessero ubbidito, sarebbero entrati nel suo riposo nella Terra Promessa, godendo di uno speciale legame con lui. Col tempo sarebbero diventati “un regno di sacerdoti” (Eso 19:5, 6; 23:20-25, 31). La nazione però non esercitò fede e non fu ubbidiente. Quindi alla fine Geova la rigettò e fece sì che “la buona notizia” venisse annunciata a coloro che sarebbero diventati discepoli di Cristo unti con lo spirito. Se questi avessero esercitato fede e si fossero mostrati ubbidienti sarebbero entrati nel riposo di Dio, avrebbero avuto il suo favore e sarebbero diventati re e sacerdoti nel Regno celeste (1Pt 2:9; Ri 5:10).
non erano uniti nella fede a quelli che prestarono ascolto Per la maggioranza degli israeliti dei giorni di Mosè la parola, ovvero le buone notizie annunciate loro, non fu di alcun beneficio. Gli israeliti non ebbero una fede come quella di Giosuè e Caleb, che furono tra “quelli che prestarono ascolto” al messaggio, cioè che ubbidirono a esso. Al contrario, gli israeliti disubbidienti si rifiutarono di seguire il comando di Geova di prendere possesso della Terra Promessa (Nu 14:1-11, 35-38).
Noi [...] che abbiamo esercitato fede entriamo nel riposo Il contesto indica che Paolo fa riferimento al giorno di riposo che iniziò quando Geova concluse le sue opere creative (Eb 4:4, 5, 10). Il libro di Genesi fornisce un dettaglio fondamentale riguardo a quel giorno quando dice: “Dio benedisse il settimo giorno e lo rese sacro” (Gen 2:2, 3). Questa affermazione stava a indicare che, entro la fine di quel giorno di riposo, tutto quello che Geova si era proposto per la terra e per gli esseri umani si sarebbe adempiuto. L’intera creazione sarebbe stata esattamente come Dio voleva che fosse. È vero che la ribellione di Satana, di Adamo e di Eva rovinò l’armonia di quel giorno di riposo, ma le loro azioni non fermarono il proposito di Geova. Le parole ispirate di Paolo assicurano ai cristiani ebrei che potevano entrare nel riposo di Dio. Potevano unirsi a Geova nel suo riposo ubbidendogli e agendo in armonia con l’avanzamento del suo proposito. Dovevano, ad esempio, confidare in lui ed esercitare fede nelle sue promesse (Eb 3:19; 4:6).
eppure le sue opere erano finite Dopo la creazione di Eva le opere creative di Geova sulla terra erano finite. Quindi il ragionamento che fa qui Paolo potrebbe essere riassunto così: il giorno di riposo di Dio iniziò tanto tempo fa, e da allora lui ha invitato gli esseri umani a entrarvi. Anche se molti hanno rifiutato l’invito, la possibilità di “[entrare] nel riposo” è ancora valida per chi esercita fede.
“E nel settimo giorno Dio si riposò da tutte le sue opere” Paolo cita Gen 2:2, che fa riferimento al settimo giorno della settimana creativa. In quel versetto, l’espressione ebraica resa “iniziò a riposarsi” trasmette l’idea che il giorno di riposo di Dio non era ancora finito. Questa spiegazione è sostenuta da quanto segue: mentre dei precedenti giorni creativi viene detto che “si fece sera e si fece mattina” (Gen 1:5, 8, 13, 19, 23, 31), a indicare che ognuno di questi giorni era giunto al termine, del settimo giorno non viene detto nulla di simile; inoltre in Eb 4:7 Paolo applica il termine “oggi”, che si trova in Sl 95:7, al giorno di riposo di Dio, indicando che quel giorno non era ancora finito quando Davide scrisse questo salmo ispirato (Sl 95:7-11; vedi approfondimento a Eb 4:7). In armonia con tutto questo, Paolo indica che il settimo giorno era ancora in corso a quel tempo e che i cristiani potevano entrare “nel riposo di Dio” (Eb 4:3, 10, 11).
non vi entrarono per disubbidienza Paolo fa un’affermazione simile in Eb 3:19, dove dice che gli israeliti non entrarono nel riposo di Dio “per mancanza di fede”. La loro mancanza di fede nelle promesse di Geova di sostenerli e proteggerli li portò a disubbidire ai suoi comandi. Come conseguenza, quei ribelli non entrarono né nella Terra Promessa né nel riposo di Dio. (Vedi approfondimenti a Eb 3:11; 4:2.) La Bibbia mostra che l’ubbidienza è un tratto fondamentale dell’esercitare fede (Gv 3:16 e approfondimento, 36; confronta Gc 2:20-23).
dicendo molto tempo dopo nel salmo di Davide Paolo cita Sl 95:7, 8 e attribuisce questo salmo a Davide. (Anche se lo scrittore del Sl 95 non viene identificato nel testo ebraico, nella Settanta compare una soprascritta che dice: “Canto di lode di Davide”.) Le parole del salmista furono davvero scritte “molto tempo dopo”: all’epoca di Davide infatti erano già passati circa 450 anni da quando Dio aveva dichiarato che gli israeliti ribelli non sarebbero entrati nel suo riposo (Nu 14:22, 23; Eb 3:7, 11; 4:3, 5) e quasi 3.000 anni dall’inizio del suo giorno di riposo (Gen 2:2; vedi approfondimento a Eb 4:4).
Giosuè Giosuè, figlio di Nun, viene menzionato due volte nelle Scritture Greche Cristiane. (Vedi approfondimento ad At 7:45.) In ebraico il suo nome significa “Geova è salvezza” (Gsè 1:1, nt.). L’equivalente greco, che compare in questo versetto, è Iesoùs, solitamente tradotto “Gesù”. (Vedi approfondimento a Mt 1:21.) Comunque il contesto fa capire che in questo caso Iesoùs non si riferisce a Gesù, ma al Giosuè che fu condottiero dell’antica nazione di Israele e guidò il popolo di Dio nella Terra Promessa. Qui Paolo sottolinea che le promesse di Dio si sarebbero adempiute solo tramite Gesù Cristo, Condottiero più grande di Giosuè.
avrebbe parlato di un altro giorno Anche se Giosuè aveva condotto gli israeliti nella Terra Promessa, quel paese non era diventato un luogo di riposo duraturo. Dopo la morte di Giosuè, infatti, gli israeliti si erano nuovamente ribellati, e il loro paese era stato presto corrotto da idolatria, guerra e oppressione (Gdc 2:10-15). Essendosi messi contro il proposito di Dio, gli israeliti non poterono entrare nel suo sacro giorno di riposo. Tuttavia qui Paolo spiega sotto ispirazione che in seguito, “nel salmo di Davide”, Geova aveva parlato di “un altro giorno” di riposo (Eb 4:7, 8), riferendosi a quel giorno con la specifica “oggi” (Sl 95:7). In questo modo aveva reso chiaro che l’opportunità di entrare nel suo riposo era ancora valida, opportunità che, come Paolo indica in Eb 4:9, i cristiani devono cogliere. (Vedi approfondimento a Eb 4:3.)
rimane un riposo sabbatico Il termine greco qui reso “riposo sabbatico” (sabbatismòs) non è quello solitamente utilizzato per il “Sabato” (sàbbaton). (Vedi ad esempio Mt 12:1; 28:1 e approfondimento; Lu 4:16.) Secondo un commentario, questo termine “non si riferisce a un giorno di ‘Sabato’ in quanto tale”, ma “all’atmosfera festosa e gioiosa, espressa nell’adorazione e nella lode rese a Dio”. Un lessico lo definisce “uno speciale periodo di riposo per il popolo di Dio sul modello del Sabato tradizionale”. Paolo perciò si sta riferendo a un tempo futuro, quando si concretizzerà l’autentico significato del Sabato. A quel punto Gesù, il “Signore del Sabato”, provvederà completo riposo, o ristoro, dalle pesanti conseguenze del peccato e della morte (Mt 12:8 e approfondimento). È possibile che Paolo abbia usato questo termine particolare (sabbatismòs), che non compare da nessun’altra parte nelle Scritture Greche e nemmeno nella Settanta, per sottolineare appunto che non si sta riferendo al Sabato tradizionale ebraico. Per di più, come la Bibbia spiega anche in altri punti, i cristiani non hanno l’obbligo di osservare il Sabato letterale. (Vedi Glossario, “Sabato”; vedi anche Col 2:14, 16 e approfondimento.)
Chi [...] è entrato nel riposo di Dio Dio scelse di riposarsi smettendo di compiere ulteriori opere creative sulla terra. Lo fece per permettere che il suo proposito per la terra avesse uno splendido adempimento (Gen 2:2, 3). Paolo esorta i cristiani ebrei ad agire in armonia con l’avanzamento del proposito di Dio riposandosi “dalle [loro] opere”, ovvero accettando ciò che Dio ha disposto per la redenzione tramite Cristo. Quei cristiani non potevano considerarsi giusti sulla base dei loro sforzi individuali, nemmeno compiendo le opere richieste dalla Legge mosaica, che ormai non era più in vigore (Ro 10:4; Col 2:13, 14; Eb 7:12; confronta approfondimento a Eb 6:1). Dovevano inoltre evitare di “[cadere] nello stesso esempio di disubbidienza” lasciato dagli israeliti infedeli (Eb 4:11; vedi approfondimento a Eb 4:3).
facciamo tutto il possibile Vedi approfondimento a 2Tm 2:15.
la parola di Dio Il contesto mostra che qui l’espressione “la parola di Dio” si riferisce al messaggio con cui Dio ha espresso il suo proposito, le sue promesse. Nei versetti precedenti (Eb 3:7–4:11) Paolo ha parlato del proposito che Dio aveva dichiarato in merito agli israeliti: dovevano diventare la sua speciale proprietà ed entrare nella Terra Promessa, dove avrebbero goduto dei benefìci della pura adorazione e delle benedizioni da essa derivanti (Eso 3:8; 19:5, 6; De 12:9, 10). Dio fece in modo che le sue promesse e ciò che si era proposto venissero inclusi sotto ispirazione nella sua Parola scritta, la Bibbia. Perciò l’espressione “la parola di Dio” che compare in questo versetto può essere correttamente applicata per estensione anche alla Bibbia. (Confronta 2Tm 3:16 e approfondimento.)
la parola di Dio è viva La parola di Dio, ovvero il messaggio con cui ha espresso il suo proposito, è “viva” sotto diversi aspetti. Qualche tempo prima, il discepolo Stefano aveva usato parole simili in riferimento alla Legge data agli israeliti presso il monte Sinai. In quell’occasione aveva fatto ricorso all’espressione “sacre dichiarazioni viventi [lett. “parole viventi”]” (At 7:38; vedi anche Ro 3:2 e approfondimento). Quella “parola”, o messaggio, era “viva” nel senso che diede una speranza di vita a coloro che scelsero di accettarla (De 32:47). Inoltre il messaggio divino era vivo perché doveva vivere nel cuore di coloro che lo avrebbero accolto (De 30:14). E cosa più importante, Geova Dio è sempre vivo e attivo, così che può mantenere la parola; pertanto la sua parola può dirsi “viva” perché dura nel tempo, è eterna e raggiunge il suo scopo (Isa 55:10, 11).
potente O “energica”. Nel caso degli israeliti che non collaborarono con il proposito di Dio, “la parola di Dio” fu “potente” perché rivelò la mancanza di fede del loro cuore (Eb 3:8, 16-19). Qui Paolo esorta i cristiani ebrei a imparare da quanto fu messo per iscritto sotto ispirazione sul loro conto. L’apostolo sapeva che la potente, energica, “parola di Dio” avrebbe esercitato il suo infallibile potere anche su di loro; avrebbe infatti potuto rivelare cosa c’era nel loro cuore, rafforzare la loro fede e aiutarli a cambiare in meglio la loro vita. (Confronta gli approfondimenti a Flp 2:13 e 1Ts 2:13, dove Paolo usa un termine affine a quello qui tradotto “potente”.)
spada a doppio taglio Il termine greco qui reso “spada” è màchaira, che a quanto pare si riferisce a una spada relativamente corta. (Per un esempio, vedi Galleria multimediale, “Spada romana”; confronta Ri 1:16; 2:12; 6:8, dove viene usata un’altra parola greca, rhomfàia, che solitamente descrive una spada lunga.) Alcune spade erano “a doppio taglio”, ovvero avevano la lama affilata e tagliente su ambo i lati. Questa metafora sottolinea quanto la parola di Dio abbia il potere di arrivare in profondità. E, come spiega ora Paolo, è molto più potente ed efficace di qualunque strumento o arnese realizzato dall’uomo.
dividere l’anima dallo spirito Qui Paolo mette in evidenza che la parola, o messaggio, di Dio può arrivare fino alla parte più profonda, intima, di una persona, come farebbe una spada affilata. Per come è usata nella Bibbia, la parola greca resa “anima” in genere si riferisce a una creatura vivente, quindi a qualcosa di fisico, tangibile e visibile. (Vedi Glossario, “anima”; vedi anche approfondimento a 1Co 15:44.) In questo versetto, perciò, “anima” si riferisce a come una persona appare esteriormente, mentre “spirito” a quello che è interiormente, al suo atteggiamento mentale predominante. (Vedi Glossario, “spirito”.) L’ispirata parola di Dio “penetra fino a dividere l’anima dallo spirito” nel senso che di un individuo fa emergere molto più di quello che appare esteriormente, in superficie. Il modo in cui una persona reagisce al messaggio di Dio rivela quello che è veramente, le sue inclinazioni e i suoi motivi.
le giunture dal midollo L’espressione metaforica usata qui da Paolo dà ulteriore risalto alla profondità con cui la parola di Dio può arrivare nell’intimo di una persona. Le giunture (i punti in cui si congiungono le ossa) e il midollo non sono visibili, si trovano all’interno del corpo, molto al di sotto della superficie cutanea. In effetti, dato che il midollo è racchiuso solo dentro alle ossa, il termine greco veniva usato anche metaforicamente per riferirsi al nocciolo o alla parte più interna di qualcosa. L’immagine che Paolo crea usando insieme “giunture” e “midollo” mostra che la parola di Dio può raggiungere perfino i pensieri e i sentimenti più profondi e può arrivare al punto di influenzarli.
in grado di discernere Lett. “capace di giudicare”. Il termine greco originale trasmette l’idea di analizzare, valutare e distinguere. La parola di Dio ha questa capacità, evidente dal fatto che è addirittura in grado di distinguere tra “i pensieri e le intenzioni del cuore”, due concetti dal significato affine. La reazione di una persona al messaggio di Dio può rivelare i suoi pensieri, ovvero quello che pensa al riguardo. Ma la capacità della parola di Dio va oltre, in quanto può rivelare le sue intenzioni, ovvero le ragioni che stanno dietro al suo modo di pensare. Quindi, la parte finale di questo versetto indica che la parola di Dio penetra nella profondità del cuore simbolico, discernendo i pensieri, le inclinazioni, i desideri, i motivi e gli obiettivi di una persona, portando così a galla tutto ciò che quella persona è interiormente. (Vedi approfondimenti a Mt 22:37; Ef 5:19.)
colui al quale dobbiamo rendere conto Queste parole possono far pensare a un uomo che fa i conti con quelli che sono sotto la sua autorità. (Confronta Mt 18:23; 25:19; Lu 16:2, dove lo stesso termine greco qui tradotto “rendere conto” viene usato per trasmettere un’idea simile in espressioni come “fare i conti” e “presentare un rapporto”.) È Dio colui al quale tutti gli esseri umani devono rendere conto di quello che fanno (Sl 62:12; Pr 24:12; Ec 12:13, 14; Ro 2:6; 14:12; 2Ts 1:7-9; 1Pt 1:17; 4:5). Ovviamente Paolo non intende dire che Geova guardi i suoi servitori con l’intenzione di punirli per i peccati che commettono; al contrario, li osserva con amorevole interesse e con il vivo desiderio di ricompensarli (Pr 19:17; Isa 40:10; Mt 6:4, 6; Eb 11:6).
un grande sommo sacerdote Nella sua lettera Paolo ha già accennato al fatto che Gesù è un sommo sacerdote (Eb 3:1; vedi approfondimento a Eb 2:17). Qui, a questo titolo, aggiunge l’aggettivo “grande”. (Confronta Eb 10:21.) Come la lettera continua a spiegare, infatti, Gesù era più grande di qualsiasi sommo sacerdote della discendenza di Aronne (Eb 4:14–7:28).
che è entrato nei cieli Qui Paolo inizia a trattare la superiorità del sacerdozio di Cristo rispetto a quello dei sommi sacerdoti che avevano prestato servizio al tabernacolo letterale e successivamente al tempio. Sotto la Legge mosaica il sommo sacerdote entrava nel Santissimo una volta l’anno per offrire il sangue di un sacrificio di espiazione in favore della nazione di Israele (Eb 9:7). Gesù invece, il grande Sommo Sacerdote, dopo la sua risurrezione entrò alla presenza di Dio “nel cielo stesso” per offrire il valore del sangue che aveva versato. Il suo sacrificio espiò in modo completo e permanente i peccati di tutti quelli che esercitano fede in lui (Eb 9:11, 12, 23, 24; 10:1-4).
non abbiamo un sommo sacerdote che non possa capire Paolo non dice semplicemente che Gesù può capire; per rafforzare il concetto usa piuttosto una doppia negazione (“non abbiamo [...] che non possa”). In questo modo assicura ai cristiani ebrei che Gesù è notevolmente diverso dai sommi sacerdoti umani, che erano imperfetti. Nella storia di Israele, a volte alcuni di loro si erano dimostrati insensibili verso le persone che avrebbero invece dovuto aiutare.
capire le nostre debolezze Il verbo reso “capire” significa condividere i sentimenti di un’altra persona e quello che ha vissuto. (Vedi anche Eb 10:34, dove Paolo usa lo stesso verbo greco.) Gesù visse sulla terra, e questo lo rese ancora più comprensivo nei confronti degli esseri umani. Fu un uomo a tutti gli effetti, e provò cosa vuol dire subire la perdita di qualcuno, rimanere deluso, essere maltrattato, sentirsi stanco e venire umiliato. (Vedi approfondimento a Eb 2:17.) Inoltre, più e più volte dimostrò di capire molto bene chi lotta contro le pressioni esercitate dal peccato. (Vedi anche approfondimenti a Mr 5:34; Gv 11:33, 35.)
messo alla prova in ogni cosa Vedi approfondimenti a Eb 2:18; 4:15; 5:8.
Avviciniamoci dunque con fiducia O “avviciniamoci dunque con libertà di parola”. Anche se peccatori, i cristiani possono avvicinarsi a Geova adorandolo nel modo a lui gradito e pregandolo liberamente. Possono farlo perché Gesù, in qualità di “grande sommo sacerdote”, applica il valore del sacrificio di riscatto pagato in loro favore (Eb 4:14; 10:19-22, 35; vedi approfondimenti a Ef 3:12; Eb 3:6.) Il modo del verbo greco reso “avviciniamoci” indica che i cristiani possono avvicinarsi liberamente e in ogni momento al trono di Dio. Comunque questa “fiducia” o “libertà di parola” non dà loro il diritto di rivolgersi a Geova con un tono irriverente o eccessivamente colloquiale; devono piuttosto pregare in modo rispettoso e dignitoso con la totale certezza che Geova è disposto ad ascoltarli (1Gv 3:21, 22; 5:14).
trono dell’immeritata bontà Nella Bibbia il termine “trono” è spesso usato in senso metaforico per indicare la sede di una autorità governativa. Il trono dell’immeritata bontà di Geova rappresenta quindi il suo modo di governare, caratterizzato da amore e bontà smisurati. (Vedi Glossario, “immeritata bontà”.) Questa bontà lo ha spinto a fornire agli esseri umani imperfetti un modo per avvicinarsi alla sua regale presenza. Paolo esorta i cristiani ebrei ad avvalersi di questa grande e immeritata bontà, che è concessa agli uomini grazie a Gesù Cristo, il “grande sommo sacerdote”, sulla base del suo sacrificio di riscatto (Eb 4:14; vedi approfondimenti a Gv 1:14). Perciò, quando pregano Dio, i veri cristiani possono avere la piena fiducia di essere trattati con misericordia e immeritata bontà al momento opportuno, cioè in qualunque momento ne abbiano bisogno.