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Mozambico

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“SIA chiaro, Chilaule: Siamo in Mozambico, e non sarete mai riconosciuti in questo paese. . . . Dimenticatevelo!” Quando agenti dell’ormai defunta polizia coloniale (PIDE, Polícia de Investigação e Defesa do Estado) dissero con rabbia queste parole a un testimone di Geova, in Mozambico si era in piena dominazione coloniale portoghese. Il predominio della Chiesa Cattolica Romana era indiscusso.

Eppure i testimoni di Geova non smisero di fare pubblica dichiarazione della loro fede in Geova, né smisero di parlare ad altri del suo amorevole proposito. La loro storia nel Mozambico è una prova eloquente della qualità della loro devozione a Geova. Ciò che li rafforzava era la fiducia nell’amore di Dio e di suo Figlio, il tipo di amore descritto dall’apostolo Paolo con queste parole: “Chi ci separerà dall’amore del Cristo? Tribolazione o angustia o persecuzione o fame o nudità o pericolo o spada? Come è scritto: ‘Per amor tuo siamo messi a morte tutto il giorno, siamo stati considerati come pecore da scannare’. . . . Sono convinto che né morte né vita . . . né governi né cose presenti né cose avvenire . . . né altezza né profondità né alcun’altra creazione potrà separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù nostro Signore”. — Rom. 8:35-39.

La storia dei testimoni di Geova nel Mozambico è una storia di persone che, sebbene private di ogni possedimento materiale, erano ricche a motivo della loro fede profonda. Essi vedevano la dimostrazione dell’amore di Dio per loro, e avevano intenso amore l’uno per l’altro. Ma prima di addentrarci in questa storia, diamo un’occhiata al paese stesso.

La sua bellezza e le sue caratteristiche

Il Mozambico, con una popolazione valutata intorno ai 17.400.000 abitanti, si estende per circa 2.500 chilometri lungo la costa dell’Africa sud-orientale. Il clima è fondamentalmente tropicale, e i prodotti agricoli sono tipici dei tropici: noci di cocco, ananas, noci di acagiù, manioca e canna da zucchero. Il pesce costituisce pure una parte importante dell’alimentazione.

Gli abitanti del Mozambico sono in genere persone felici e cordiali che amano la vita. Fra loro ci sono stati atleti di fama mondiale. Questi naturalmente sono pochi. Ma ci sono oltre 19.000 altri che stanno vincendo una corsa che implica valori diversi. Sono i testimoni di Geova, la cui storia nel Mozambico è iniziata nel 1925.

I semi della verità mettono radice

In quell’anno Albino Mhelembe, un mozambicano che lavorava nelle miniere di Johannesburg in Sudafrica, sentì parlare della buona notizia del Regno di Dio. I semi della verità del Regno misero radice nel suo cuore e ben presto si battezzò. Tornato a casa, a Vila Luísa (ora Marracuene), nella provincia più meridionale del Mozambico, cominciò a predicare a quelli che frequentavano la sua chiesa di un tempo, la Missione Svizzera. I nuovi interessati africani erano molto zelanti e a volte percorrevano 30 chilometri per andare alle adunanze. Presto si formarono nuovi gruppi, fra cui uno a Lourenço Marques, ora Maputo.

Più o meno in quel tempo l’opera di predicazione del messaggio biblico stava iniziando più a nord. Gresham Kwazizirah, un africano del Niassa (l’attuale Malawi), aveva studiato il libro L’Arpa di Dio con l’aiuto dei sudafricani John ed Esther Hudson. Nel 1927 Gresham, insieme a Biliyati Kapacika, si trasferì nel Mozambico in cerca di lavoro. Essi entrarono nel paese dalla zona di Milange e procedettero a sud fino a Inhaminga (Sofala), dove entrambi furono assunti dalla ferrovia della Transzambezia.

A Inhaminga trovarono una congregazione di un cosiddetto movimento Torre di Guardia e il suo pastore, Robinson Kalitera. Quando Kalitera sentì gli insegnamenti biblici spiegati nell’Arpa di Dio, gli si aprirono gli occhi. Riconobbe di essere stato in errore, e lui e tutta la congregazione cominciarono ad associarsi con l’organizzazione di Geova.

Si presta attenzione al campo europeo

Nel 1929 i primi Testimoni europei, Henry ed Edith Myrdal, arrivarono a Lourenço Marques dal Sudafrica e cominciarono a dare testimonianza alla popolazione portoghese. Quattro anni dopo si unirono a loro i De Jager. Grazie a loro vennero seminati molti semi di verità biblica.

Poi nel 1935 altri due pionieri, Fred Ludick e David Norman, vennero per un po’ a Lourenço Marques. Stavano presso la famiglia Myrdal. Ma, nel loro quinto giorno di servizio, la polizia segreta venne improvvisamente ad arrestarli a casa dei Myrdal, li rinchiuse in un furgone cellulare e li portò da un alto ufficiale, un certo sig. Teixeira. Quando David disse chiaro e tondo che sapeva che dietro l’intera faccenda c’era il vescovo, il sig. Teixeira si alzò di scatto e urlò: “Se foste miei concittadini, vi spedirei su due piedi nell’isola di Madeira, ma poiché siete sudafricani vi farò espellere immediatamente!” Quel giorno stesso vennero scortati fino al confine da due macchine piene di poliziotti armati fino ai denti. Tuttavia, giunti alla frontiera i fratelli diedero testimonianza agli agenti, offrirono loro delle pubblicazioni e strinsero la mano a tutti prima di continuare il viaggio.

Dure prove

Janeiro Jone Dede, un umile agricoltore africano, conobbe la verità nel 1939 a Inhaminga. Una volta tornato a casa a Mutarara, parlò della verità ai suoi parenti, che facevano parte di un gruppo religioso che praticava la poligamia. Diventò pioniere speciale, e due suoi fratelli carnali, Antonio e João, servirono come pionieri regolari. Nel 1946 Janeiro venne arrestato e mandato a Tete, dove per quattro anni gli fecero pulire i gabinetti degli europei. Poi fu trasferito nella prigione centrale di Beira e di là fu trasportato a Lourenço Marques in maniera strana e disumana. Viaggiò su una barca in una cassa piena di acqua salata, con solo la testa fuori. Giunto a Lourenço Marques, ne uscì nudo: i suoi abiti si erano disintegrati. Per coprirsi gli venne dato un sacco. Al processo gli ordinarono di abbandonare la sua religione e il suo Dio, ma in modo simile agli apostoli di Gesù Cristo, egli ripose: “L’importante è ubbidire a Dio anziché agli uomini”. — Atti 5:29.

Dopo il processo Janeiro fu confinato in una cella isolata e dentro una cassa di legno, con solo una minuscola apertura dalla quale ogni giorno gli passavano qualche pezzo di frutta. Quando una settimana dopo lo tirarono fuori, non era praticamente in grado di stare in piedi. Insieme ai suoi fratelli carnali Antonio e João, fu deportato a São Tomé e Príncipe per scontare una condanna a sette anni. Durante questo periodo i fratelli Dede aiutarono a formare una congregazione in quelle isole penali. Quando Portugal Dede, che si trovava in Sudafrica, fu informato della deportazione dei suoi fratelli, tornò a Mutarara per occuparsi della congregazione finché fossero stati rilasciati dalla colonia penale.

Ma che dire dei Testimoni che si trovavano al sud? Sotto la dura persecuzione anch’essi si dimostrarono Testimoni leali. Fra loro c’era Albino Mhelembe, che era ormai avanti negli anni. Nel 1957 anche lui e altri di Lourenço Marques furono deportati a São Tomé, ma continuarono a dare testimonianza. Sional Tomo, rilasciato da São Tomé dopo due anni, venne esiliato di nuovo, questa volta a Meconta, nella provincia di Nampula. Morì là, ma lasciò una congregazione, frutto del suo ministero.

“Farò il pastore del gregge di Dio”

Così rispose Calvino Machiana quando il suo insegnante chiese agli alunni cosa volevano fare da grandi. In seguito, a Johannesburg, un ex compagno di scuola gli diede testimonianza. Ma solo dopo essere ritornato a Lourenço Marques nel 1950 egli tagliò finalmente i ponti con la Chiesa della Missione Svizzera. Quando la PIDE, la polizia coloniale, arrestò e deportò i più esperti del gruppo, gli altri rimasero senza una guida.

Provvidenzialmente Nelli Muhlongo, una sudafricana, venne a fare visita ai parenti nel quartiere dove si trovava Machiana. Machiana seppe che era una testimone di Geova e le parlò degli interessati della zona. Essa li radunò e iniziò uno studio biblico col gruppo. I partecipanti erano sei. La sorella Muhlongo chiese a Machiana di tenere lo studio, ma egli rifiutò, dicendo: “Io non sono battezzato”. Lei replicò: “Io sono qui solo in visita. Quando me ne vado, dovrai prendere tu la direttiva”. Fu così che Machiana diventò “pastore del gregge di Dio” prima del previsto.

‘Zunguza, . . . ritorna al tuo paese’

Nel 1953 il giovane Francisco Zunguza lasciò Beira diretto a Città del Capo, in Sudafrica. La sua meta era vincere una borsa di studio per studiare medicina a Londra. Fra il suo bagaglio c’era il libro Fanciulli, regalatogli da un amico. Stava a Pretoria presso una famiglia anglicana, che un giorno vedendolo leggere il libro gli chiese se era testimone di Geova. Rispose che non lo era, ma stava solo leggendo il libro. Comunque la famiglia lo mise gentilmente in contatto con un testimone di Geova, che iniziò uno studio con lui. Si battezzò due anni dopo essere arrivato in Sudafrica.

Il fratello Zunguza ricorda di aver ricevuto questo consiglio dai fratelli maturi della congregazione: “Zunguza, è meglio che ritorni al tuo paese, il Mozambico, e lavori lì. Adesso sei battezzato. Perché perseguire altre mete? Non ne vale la pena”. (Confronta Romani 11:13; Filippesi 3:7, 8; 1 Giovanni 2:15-17). Il fratello Zunguza accettò il consiglio e senza esitare ritornò a Lourenço Marques, dove si unì al gruppetto locale. In seguito si sposò e con la moglie, Paulina, fu impiegato estesamente dall’organizzazione di Geova come sorvegliante viaggiante in tutto il Mozambico. Il suo amore per Dio è stato messo a dura prova. È rimasto fedele nonostante i circa 14 anni trascorsi in prigione, in campi di concentramento e sotto le restrizioni imposte dal governo. È comprensibile che sia amato e molto apprezzato dai fratelli del Mozambico. Come dice lui stesso: “È stato meglio che io sia ritornato al mio paese”.

Tentativi di ottenere il riconoscimento giuridico

Preoccupata per la persecuzione e le deportazioni da parte del governo coloniale, nel 1954 la filiale del Sudafrica mandò in Mozambico Milton Barlett, diplomato della Scuola missionaria di Galaad (Watchtower Bible School of Gilead). Nei pochi giorni che vi rimase, egli riuscì a parlare con il console americano e con un alto funzionario portoghese, il quale consigliò di rivolgersi al governatore generale per avere il riconoscimento giuridico. Il funzionario disse però che a motivo del concordato con il Vaticano, anche se veniva concesso un certo grado di libertà, i testimoni di Geova non avrebbero mai goduto della libertà che aveva la Chiesa Cattolica Romana.

A quel colloquio ne fece seguito un secondo quando l’anno dopo John Cooke, un altro diplomato di Galaad, si recò dal console inglese in Mozambico. Benché fosse amichevole, il console menzionò che il cardinale cattolico aveva recentemente sferrato un attacco sulla stampa contro ogni forma di protestantesimo. Il console aggiunse inoltre che la polizia considerava pericolosi i testimoni di Geova. In conclusione, espresse l’opinione che di tutte le “sette”, per usare la sua espressione, i Testimoni avevano la minore probabilità di ottenere il riconoscimento giuridico.

Ciò nonostante la visita del fratello Cooke ebbe dei buoni risultati. Egli poté fare una visita ulteriore a un giovane portoghese interessato, di nome Pascoal Oliveira. Pascoal aveva sentito parlare della verità qualche anno prima a Lisbona. Si dispose di tenere uno studio con lui e con i suoi genitori. In seguito Pascoal si dedicò a Geova.

Nel 1956 la filiale del Niassa, che allora si occupava dell’opera nel Mozambico, cominciò a mandare pionieri speciali oltre il confine a predicare nei villaggi della regione settentrionale. Anche altri vennero a servire nel Mozambico dove c’era bisogno, e la loro influenza si fece particolarmente sentire nelle regioni di confine.

Tornano gli esiliati

Col tempo Janeiro Dede e i suoi fratelli tornarono da São Tomé. A São Tomé avevano potuto predicare liberamente, ma appena tornati a casa ricevettero un sacco di botte e fu detto loro di smettere qualsiasi attività di predicazione o sarebbero stati deportati di nuovo, per non tornare mai più. Che trattamento, proprio come quello riservato dal Sinedrio agli apostoli di Gesù Cristo! — Atti 5:40-42.

Janeiro e i suoi fratelli non permisero che queste minacce impedissero loro di servire Geova. Nel marzo 1957 Janeiro fu nominato pioniere speciale e in seguito, per più di dieci anni, servì come sorvegliante viaggiante in gran parte del paese.

Testimonianza notturna

Nuovi interessati continuavano a unirsi al gruppo di Lourenço Marques. La casa di Ernesto Chilaule, un mozambicano, era fra quelle in cui si teneva uno studio. Anche Antonio Langa abitava lì. Di estrazione cattolica, Langa contestava certi punti dottrinali e voleva prove, specie sulla Trinità. Il gruppo temeva che li avrebbe denunciati alla PIDE. Langa però nutriva sincero interesse per la verità e continuò ad ascoltare lo studio stando nascosto sulle scale esterne. In base a ciò che sentì, concluse che questa era la verità.

Un giorno un fratello regalò a Langa il libro “Sia Dio riconosciuto verace”. L’indomani, tornato a casa dal lavoro, Langa cominciò a leggere il libro alle due del pomeriggio e non smise finché non arrivò alla fine alle due di notte! Poi cominciò ad assistere regolarmente alle adunanze e insisté che anche il suo amico Chilaule leggesse il libro, così avrebbero potuto cominciare a predicare.

Scelsero come territorio i gruppi sionisti animisti (Mazione) nei sobborghi di Lourenço Marques. Di notte, quando questi gruppi si radunavano per i loro riti accompagnati dal rullare di tamburi, danze, bevute e musica, i due andavano da loro e, dopo aver chiesto il permesso al capo del gruppo, pronunciavano un breve discorso. Spesso tornavano a casa all’alba. Che zelo nel diffondere la loro nuova fede!

Battesimo a Lourenço Marques

Quando il gruppo era ormai costituito da 25 persone che facevano rapporto del servizio di campo, venne scritta una lettera alla filiale del Sudafrica per chiedere che qualcuno venisse a battezzare i nuovi. La risposta fu che poteva occuparsene il fratello Zunguza. Il 24 agosto 1958, durante un’adunanza tenuta in un luogo tranquillo, si battezzarono 13 persone, le prime a Lourenço Marques. Il gruppo includeva Calvino Machiana, Ernesto Chilaule e Antonio Langa, con le rispettive mogli, e anche Paulina Zunguza.

Nel 1959, dopo che il fratello Zunguza si era trasferito a Beira, il fratello Chilaule fu invitato a presentarsi alla PIDE, che aveva intercettato e letto la sua corrispondenza. Venne interrogato per tutta la mattinata. Nel pomeriggio gli agenti andarono a casa sua e confiscarono tutte le pubblicazioni. I fratelli e gli interessati che videro la Land-Rover della polizia davanti alla casa di Chilaule temevano di essere arrestati tutti. Stranamente una settimana dopo tutti i libri furono restituiti. Era l’incoraggiamento di cui il gruppo aveva bisogno.

Visite incoraggianti

Nel frattempo Pascoal Oliveira e il gruppetto di europei di Lourenço Marques ricevettero le incoraggianti visite di Halliday e Joyce Bentley, una coppia di missionari mandati dalla filiale del Niassa. Le loro visite, fatte due volte all’anno, includevano Beira, circa 720 chilometri a nord della capitale, e altre città. In seguito venne anche Milton Henschel, della sede mondiale, che li incoraggiò a continuare a edificare insieme all’organizzazione di Geova.

La prima congregazione di Testimoni mozambicani esisteva già da diversi anni nella capitale quando, nel 1963, si formò una congregazione per i proclamatori europei che vi risiedevano.

Si proclama con coraggio la buona notizia

Dopo che la polizia coloniale, la PIDE, aveva restituito le pubblicazioni confiscate a Ernesto Chilaule, il gruppo africano di Lourenço Marques non ebbe più timore. La domenica si radunava vicino all’affollato mercato di Xipamanine, all’ombra di un albero. Servendosi di un megafono, consideravano la scrittura del giorno. Poi, a due a due, andavano a predicare nelle case e nei negozi intorno al mercato. Alle 11,30 ritornavano al punto di partenza per fare colazione prima di iniziare a mezzogiorno il discorso pubblico a cui avevano fatto ampia pubblicità. Ogni tanto, se qualche proclamatore tardava a rientrare dal ministero, veniva richiamato col megafono: “È ora... È ora... Tornate perché è ora...”

Una gran folla cominciava a radunarsi. Oltre a quelli che erano stati invitati personalmente dai fratelli stessi, venivano anche molti curiosi attirati dal suono del megafono. Formavano un grande cerchio nella piazza affollata, e poi iniziava il discorso. Gli abitanti della zona uscivano sulle verande per ascoltare, e molti portavano la loro Bibbia per seguire i versetti che venivano letti. I fratelli continuarono a far questo per alcuni anni riunendosi ora al mercato di Xipamanine o di Chamanculo, ora nel viale Craveiro Lopes (l’attuale Avenida Acordos de Lusaka). Questo contribuì alla crescita, avvenuta negli anni ’60, da una a quattro congregazioni.

Prima la cartolina della PIDE

Micas Mbuluane fu contattato in questo modo. Quando accettò il libro “Sia Dio riconosciuto verace” e chiese uno studio biblico, domandò: “Quanto dovrò pagare?” Questi studi non vengono mai fatti pagare, ma i fratelli gli suggerirono di mettere a disposizione la sua casa per tenervi un discorso la domenica successiva. Egli acconsentì prontamente. L’oratore fu Ernesto Chilaule, e vi assisterono circa 400 persone. Un informatore della PIDE denunciò l’adunanza alla polizia. Il capo della polizia invitò Micas a presentarsi nel suo ufficio. Micas era preoccupato. Ecco le sue parole: “Sono un doppio gentile, essendo stato a una sola adunanza. Cosa andrò a dire?” (Sul posto “gentile” significa non credente; “doppio gentile” indicava come si sentiva indegno). Chiamò immediatamente il fratello che studiava con lui per essere addestrato nei pochi minuti che aveva prima di presentarsi.

Arrivato al commissariato Micas si sentì chiedere di che religione fosse. Senza esitazione rispose: “Testimone di Geova”. Quindi Mario Figueira, il capo della polizia, procedette con l’interrogatorio: “Dunque c’è stata una grande riunione in casa tua, con un’influenza straniera, a porte chiuse e con la polizia lasciata fuori. Certamente doveva avere a che fare col Frelimo”. Si riferiva al Fronte di Liberazione del Mozambico (Frente da Libertação de Moçambique), il movimento che all’epoca lottava per l’indipendenza del Mozambico. Micas si chiedeva come dovesse rispondere; di questo non si era parlato nel suo “addestramento”. Cercò di spiegare diplomaticamente tutto ciò che aveva visto e a cui aveva partecipato per la prima volta.

“Va bene, Micas, basta così”, interruppe il sig. Figueira e, mettendo le mani sulle spalle di Micas, proseguì: “Quello che dici è la verità. Da che mondo è mondo i servitori di Dio sono stati perseguitati per aver detto la verità, come te. Chiedo solo una cosa: La prossima volta che tenete un’adunanza così numerosa, fatecelo sapere onde evitare complicazioni. Va in pace. Ma domani torna qui e porta due fotografie in modo che possiamo archiviare una cartolina indicante che sei un testimone di Geova”. (In quel tempo la PIDE aveva in archivio una cartolina di tutti i responsabili della congregazione). Micas ama dire ridendo bonariamente: “Io, un doppio gentile, avevo una cartolina alla PIDE prima di averla nella congregazione!” Purtroppo un simile trattamento amichevole da parte di agenti della polizia non era comune.

Quello che accade nel Malawi giova all’opera al nord

Tre delle assemblee di distretto “Facciamo discepoli” tenute nel Malawi nel 1967 si svolsero vicino al confine del Mozambico, quindi per alcuni fratelli mozambicani fu più facile parteciparvi. Ma in ottobre il presidente H. Kamuzu Banda annunciò che i testimoni di Geova erano una società proibita nel Malawi. Contro di loro scoppiò una feroce persecuzione. In tutto il paese le loro proprietà vennero distrutte, essi furono picchiati, alcuni uccisi, oltre un migliaio di donne cristiane vennero stuprate. Disperati, molti superstiti cercarono rifugio nel Mozambico. Contrariamente alle aspettative, le autorità portoghesi li accolsero in modo ospitale. Venne provveduto loro del cibo in due grandi campi vicino a Mocuba, nella provincia di Zambézia. In uno di questi campi soltanto c’erano 2.234 nostri fratelli. La loro presenza contribuì molto alla diffusione del messaggio del Regno nel nord.

A Beira, la seconda città del paese in ordine di grandezza, i Testimoni mozambicani godevano allora di maggiore libertà di quelli della capitale. Potevano tenere le adunanze, ma la predicazione di casa in casa era limitata, specie nei quartieri residenziali europei.

Una notifica controversa causa divisioni

Nel 1968 gli anziani di Lourenço Marques ricevettero dalla PIDE un mandato di comparizione. Fu presentata loro una “Notifica” che avvertiva che ai testimoni di Geova era vietato fare opera di proselitismo ed era concesso di radunarsi solo con quelli della loro stessa famiglia. Questa “Notifica” doveva essere firmata a conferma che gli anziani l’avevano ricevuta.

Avendo compreso che ciò non costituiva in alcun modo una rinuncia alla propria fede, ma serviva semplicemente ad accusare ricevuta della notifica, gli anziani firmarono. Comunque erano decisi a continuare a ubbidire ai comandi biblici di radunarsi insieme e di predicare, pur facendolo con prudenza e in gruppi più piccoli. (Matt. 10:16; 24:14; 28:18-20; Ebr. 10:24, 25) Malgrado le loro intenzioni, tra i fratelli si creò una frattura. Alcuni ritenevano che firmando quel documento gli anziani avessero fatto un compromesso.

Nel tentativo di dimostrare al gruppo dissidente che non avevano agito per paura e che non era stato fatto nessun compromesso, gli anziani formarono un comitato capeggiato da Ernesto Chilaule. Essi si rivolsero al comando della PIDE per informarsi circa la ragione del bando. “Cos’è che non va con i testimoni di Geova?”, chiesero. La risposta fu: “Noi non abbiamo nessun problema con voi, ma questa religione non è permessa in Mozambico. Anche se non fate niente di male, il governo non autorizza questa religione”. I funzionari aggiunsero che se qualcuno voleva praticare questa religione, doveva andare in un altro paese.

La risposta del fratello Chilaule e dei suoi compagni fu ferma: “Se il governo decide che insegnare alla gente a non rubare, a non uccidere e a non fare niente di male è sbagliato, allora arrestateci. Noi continueremo a insegnare la verità, ed è esattamente quello che faremo appena ce ne andremo di qui”. Ancora una volta queste parole ci ricordano uno degli apostoli di Gesù davanti al Sinedrio. — Atti 4:19, 20.

Questa azione coraggiosa riconciliò i dissidenti? Triste a dirsi, no. Nonostante tutto l’aiuto offerto loro, incluse ripetute visite di un rappresentante speciale della filiale del Sudafrica, essi continuarono a comportarsi in modo indipendente, chiamandosi “testimoni di Geova liberi”. Dovettero essere disassociati per apostasia. In seguito la Società scrisse che adottare una linea di condotta cauta di fronte alla persecuzione non è un’indicazione di timore, anzi, è in armonia con il consiglio di Gesù in Matteo 10:16.

La PIDE sferra un duro colpo

Meno di un anno dopo questa ribellione, la PIDE arrestò 16 fratelli che avevano incarichi di responsabilità. Fra loro c’erano Ernesto Chilaule, Francisco Zunguza e Calvino Machiana. Fu in questa occasione che gli agenti della PIDE rivolsero al fratello Chilaule le parole riportate all’inizio di questa storia.

Seguirono altri arresti. Come fece la PIDE a procurarsi nome e indirizzo dei servitori nominati? Durante un’irruzione in casa del fratello Chilaule, su un tavolino avevano trovato un archivio contenente le lettere della Società con i nomi dei servitori nominati, e anche il manuale Predichiamo insieme unitamente. Avendo queste informazioni in loro possesso, ricercarono specificamente il servitore di congregazione, l’assistente servitore di congregazione, il conduttore dello studio Torre di Guardia, il conduttore dello studio di libro di congregazione e altri. Questi furono gettati nella prigione di Machava senza processo, condannati a due anni di reclusione.

La filiale del Sudafrica incoraggiò i fratelli in prigione e aiutò le loro famiglie. Amnesty International tentò di far rilasciare i fratelli e di provvedere aiuti alle loro famiglie. I fratelli del Mozambico che erano liberi disposero di provvedere viveri a chi ne aveva bisogno. Alita, la figlia del fratello Chilaule, dice a proposito di queste disposizioni: “Non ci è mai mancato il cibo quotidiano. Qualche volta era anche migliore di quello a cui eravamo abituati”.

L’opera di predicazione continua

Nonostante il “tempo difficoltoso”, il popolo di Geova non poteva tralasciare l’opera vivificante di predicare la buona notizia del Regno. (2 Tim. 4:1, 2) Fernando Muthemba, che diventò una delle colonne dell’opera in questo paese, ricorda che nella sua congregazione furono arrestati sia il servitore di congregazione che l’assistente servitore. Poiché era il servitore degli studi biblici, fu necessario che prendesse lui la direttiva. La Società stabilì che si pronunciasse una serie di discorsi basati sul libro La Verità che conduce alla Vita Eterna. Con la dovuta cautela, egli dispose di tenerli la sera, ai gruppi dello studio di libro. Ogni oratore pronunciava il suo discorso a due gruppi per sera. In tal modo molti invitati ricevettero questo cibo spirituale, e il loro apprezzamento per la verità aumentò.

I nuovi ricevettero un addestramento intenso in modo da essere efficaci nel ministero e coraggiosi di fronte alla persecuzione. Filipe Matola descrive come trasse beneficio dall’addestramento iniziale: “Venivamo preparati a parlare ad altri di quello che imparavamo, provando con la Bibbia tutto quello che insegnavamo. Dopo due settimane di studio, cominciavamo a predicare in modo informale. La terza settimana iniziavamo a invitare altri interessati a partecipare allo studio. La quarta settimana cominciavamo a predicare di casa in casa. I nuovi erano incoraggiati a perseverare in caso di prove e arresto e a essere intrepidi. Solo un fratello che aveva un incarico di responsabilità nella congregazione era libero, e diceva: ‘Non so quando mi metteranno in prigione. Perciò dovreste tutti imparare a occuparvi della congregazione’”. Quando anche il fratello Matola venne mandato nella prigione di Machava, il suo zelo non si affievolì.

Predicazione e adunanze in prigione

Appena possibile il gruppo che si trovava nella prigione di Machava organizzò tutte le adunanze, per rimanere spiritualmente forte. Come riuscirono a far questo, dato che erano sorvegliati? Filipe Matola spiegò: “Approfittavamo delle occasioni in cui avevamo accesso al cortile della prigione. Chi era incaricato di pronunciare un discorso nella Scuola di Ministero Teocratico camminava insieme ad altri quattro, come se stessero passeggiando e conversando. Quindi lasciava questi quattro e faceva la stessa cosa con altri quattro, e così via, finché tutti avevano sentito il discorso.

All’inizio avevano cercato di tenere lo studio di libro nelle celle con l’aiuto di una pubblicazione, ma furono scoperti e fu proibito loro di continuare. Allora cambiarono metodo. Luis Bila, un altro Testimone detenuto, ricorda: “Ognuno si preparava, poi in un giorno e in un’ora prestabiliti e senza pubblicazioni in mano, passeggiavamo seguendo lo stesso metodo usato per la Scuola di Ministero Teocratico, spiegando a turno i punti principali del materiale. Questo metodo era molto proficuo perché dovevamo imparare a memoria il materiale, così non l’avremmo mai dimenticato”.

I familiari che erano liberi davano una mano nascondendo la letteratura sotto il cibo e introducendola di nascosto nella prigione ogni volta che venivano in visita. In questo modo i fratelli erano nutriti fisicamente e spiritualmente.

Ci furono pure occasioni in cui altri prigionieri beneficiarono delle adunanze. Una volta che tre fratelli dividevano un braccio della prigione con altri 70 detenuti, fu tenuto un discorso pubblico. Un fratello fece da presidente e il secondo pronunciò la preghiera. Poi i tre cantarono e venne pronunciato il discorso. Totale dei presenti: 73.

Ernesto Chilaule divideva la cella con uno del Frelimo che era stato arrestato dalla PIDE perché lottava per l’indipendenza. Ebbero delle conversazioni amichevoli e venne data testimonianza riguardo alla speranza del Regno di Dio. In seguito si incontrarono di nuovo in circostanze diverse.

Ansioso di parlare della verità a Inhambane

Inhambane, una delle province meridionali, divenne teatro dell’intensa attività svolta da un umile muratore. Quest’uomo, Arão Francisco, dopo aver sentito un discorso nel 1967 a Lourenço Marques, non dubitò di aver trovato la verità. Si sentì in obbligo di parlare con la gente delle sue parti di quello che aveva sentito. E lo fece. Tornato a Lourenço Marques, si battezzò più o meno quando il vasto gruppo degli anziani fu arrestato dalla PIDE. Arão si sentiva responsabile dell’interesse che aveva suscitato fra la sua gente e temeva di essere imprigionato prima che potesse aiutarli ulteriormente. Alcuni fratelli cercarono di dissuaderlo, dicendo che era ancora troppo nuovo nella verità per andare in predicazione da solo. Egli aspettò qualche mese, ma non poteva più resistere all’impellente desiderio di dare testimonianza alla sua gente. Prese la moglie e i due figli e ripartirono per Inhambane. Iniziando solo con la sua famiglia, teneva tutte le adunanze.

Sparse i semi della verità nella città di Inhambane, a Maxixe e in altre cittadine della regione, ponendo il fondamento delle congregazioni che vi si trovano oggi. Quando un sacerdote cattolico cercò di intervenire, dicendo: “Non puoi formare gruppi qui”, Arão rispose con coraggio: “Non ci sono limiti per la buona notizia che porto. Posso andare ovunque”. E, certamente, come indica Atti 1:8, questo è quanto Gesù disse che sarebbe accaduto.

Il sacerdote locale convocò una riunione per decidere se Arão doveva essere espulso dalla zona. Arão dichiarò che non si sarebbe mosso. Non sorprende che il sacerdote chiedesse l’intervento del suo alleato preferito, la PIDE.

La PIDE dà la caccia a un muratore-predicatore

Una domenica, mentre Arão visitava altri gruppi più lontano, quattro agenti della PIDE assisterono all’adunanza a Inhambane. Affermarono di essere testimoni di Geova di passaggio. Alla fine dell’adunanza, però, dissero chi erano e chiesero di vedere Arão. Non trovandolo, arrestarono otto dei fratelli presenti.

Poiché Arão stava costruendo una casa per l’amministratore di Ngweni, gli agenti andarono a cercarlo là. Arão sentì l’amministratore dire loro: “Non posso lasciarlo andare per via della religione. Prima deve finire il lavoro della mia casa”. Allora gli agenti chiesero: “Vuol dire che è lui che sta costruendo questa casa?” “Sì”, rispose l’amministratore, “e ha costruito anche la casa a Maxixe e molte altre. Nessun altro nei dintorni sa fare il lavoro che lui sta facendo sulla mia casa. Ha costruito l’ufficio del registro a Maxixe, e deve ancora costruire la locanda”. Dopo aver sentito un curriculum del genere, gli agenti dissero: “Torneremo a prendere Arão per costruire la casa per l’amministratore delle opere pubbliche”.

Arão venne arrestato e impiegato nella costruzione di vari edifici governativi. Ma anche da prigioniero ebbe molte opportunità di dare testimonianza.

Un ufficiale della PIDE chiamava Arão nel suo ufficio la sera perché lo aiutasse a studiare il libro Verità. Quando entrava qualcuno, l’ufficiale, il sig. Neves, prendeva prontamente dei documenti e fingeva di fare un interrogatorio. Un giorno disse: “Arão, con quello che mi hai insegnato, mi sono convertito. Durante tutta la mia vita, da quando ero a Lisbona fino ad ora, ho parlato con dei testimoni di Geova. Ora, appena sarò in pensione, lo diventerò anch’io. Ma prima di andarmene, devo rimetterti in libertà. Datti da fare per finire il lavoro in corso, e dirò all’ispettore generale di trovare un altro muratore. Per evitare qualsiasi problema, non tornerò a Lisbona, ma venderò tutto quello che ho e andrò in America. Hai capito, Arão? Non dire niente a nessuno”.

Il sig. Neves si impegnò per mantenere la promessa e perfino liberò i fratelli detenuti a Inhambane. Ma non fu facile liberare Arão. La PIDE aveva finito per considerarlo il suo muratore. Il sig. Neves ormai era già in pensione, ma andava ogni giorno a trovare il suo amico e chiedeva all’ispettore generale di liberare Arão. Come aveva promesso, solo dopo che Arão venne liberato il sig. Neves se ne andò per la sua strada. Chissà dove si trova ora il sig. Neves. Ha mantenuto il resto della promessa? Lo speriamo sinceramente.

I cambiamenti politici recano un sollievo temporaneo

Il 1° maggio 1974 si udì un grido di gioia in tutta la prigione di Machava. La “Rivoluzione dei Garofani” (Revolução dos Cravos) del 25 aprile aveva posto fine alla dittatura in Portogallo, provocando cambiamenti enormi nelle sue colonie d’oltremare. Il 1° maggio fu concessa un’amnistia a tutti i prigionieri politici. I testimoni di Geova, essendo in prigione per la loro neutralità politica, furono inclusi nell’amnistia. Il Mozambico si preparava a diventare una nazione indipendente.

Una volta liberati, i fratelli furono incoraggiati vedendo quanto erano aumentati i servitori di Geova. Furono anche lieti di vedere come erano forti spiritualmente quelli che erano rimasti liberi. (Confronta Filippesi 1:13, 14). Approfittando della ritrovata libertà tennero un’assemblea di circoscrizione in grande stile. La loro gioia fu accresciuta dalla presenza di due fratelli sudafricani a loro cari: Frans Muller, coordinatore del Comitato di Filiale del Sudafrica, che si era interessato vivamente del benessere dei fratelli del Mozambico, ed Elias Mahenye, che aveva servito per molti anni come sorvegliante di circoscrizione nel Mozambico meridionale.

A questa assemblea quelli che erano stati in prigione furono incoraggiati a cooperare con l’organizzazione di Geova che avanzava rapidamente. Il fratello Mahenye ricordò ai fratelli: “La PIDE è scomparsa, ma suo nonno, Satana il Diavolo, c’è ancora. Siate forti e fatevi coraggio”. Egli chiese a quelli che erano stati in prigione di alzarsi in piedi. Erano parecchie decine. Poi invitò quelli che erano venuti nella verità durante il periodo di detenzione dei fratelli ad alzarsi. Metà dei circa 2.000 presenti si alzò. Il fratello Mahenye concluse: “Non avete motivo di temere”.

Quelle parole di incoraggiamento vennero al momento giusto. Nuvole nere si addensavano all’orizzonte, e una suprema prova di amore per Geova Dio attendeva tutto il suo popolo nel Mozambico.

Il 1974 passò in fretta. Durante l’anno si ebbero 1.209 battezzati; 2.303 nel 1975. Molti che oggi sono anziani si battezzarono allora.

Tuttavia il fervore rivoluzionario stava impossessandosi del paese. Lo slogan “Viva Frelimo” diventò un simbolo della lotta decennale per la libertà e l’indipendenza. C’era euforia in tutta la nazione, e per la maggioranza era inconcepibile che qualcuno non la condividesse. I sentimenti prevalenti stavano per far calare una cortina sulla libertà goduta dai fratelli per poco tempo, e sarebbe stata una cortina di ferro.

Ordini di arresto

Via via che si facevano i preparativi per il 25 giugno 1975, giorno dell’indipendenza, la posizione neutrale dei testimoni di Geova diventava sempre più evidente. I fratelli responsabili cercarono di avere un colloquio con il nuovo governo, ma inutilmente. Il presidente da poco insediato diede in pratica un ordine quando durante un discorso alla radio gridò: “Porremo fine per sempre a questi testimoni di Geova . . . Pensiamo che siano agenti lasciati dal colonialismo portoghese; sono ex agenti della PIDE . . . Perciò proponiamo al popolo di arrestarli immediatamente”.

L’attacco era iniziato. Nei quartieri furono mobilitati gruppi autorizzati a compiere azioni repressive, con un comune obiettivo: arrestare tutti i testimoni di Geova, sul lavoro, a casa, per le strade, in qualsiasi ora del giorno o della notte, in ogni angolo del paese. Ognuno era obbligato a presentarsi alle adunate di quartiere tenute nei luoghi di lavoro e in aree pubbliche, e chi non si univa alla folla gridando “Viva Frelimo” era considerato un nemico. Questo è lo spirito che prevale quando le passioni politiche giungono al parossismo.

Eppure è risaputo che i testimoni di Geova, pur essendo neutrali nelle questioni politiche, sostengono la legge e l’ordine, rispettano i funzionari, sono onesti e sono coscienziosi nel pagamento delle tasse. Nel corso degli anni il governo del Mozambico avrebbe potuto confermarlo. Intanto, però, la situazione dei testimoni di Geova del Mozambico si dimostrò simile a quella dei primi cristiani che furono messi a morte nelle arene romane per aver rifiutato di bruciare incenso all’imperatore, e simile a quella dei loro fratelli tedeschi che furono gettati nei campi di concentramento perché si erano rifiutati di gridare “Heil Hitler”. In tutto il mondo i testimoni di Geova sono conosciuti perché non rinunciano a ubbidire a Geova e a Gesù Cristo, che disse dei suoi seguaci: “Essi non fanno parte del mondo come io non faccio parte del mondo”. — Giov. 17:16.

Deportazione in massa: dove?

In poco tempo le prigioni del Mozambico erano strapiene di migliaia di testimoni di Geova. Molte famiglie vennero smembrate. L’intensa propaganda generava tale ostilità contro i Testimoni che, per quanto gli anziani non lo incoraggiassero, molti preferivano costituirsi, sentendosi più sicuri insieme ai fratelli e ai parenti che erano già in prigione.

Dall’ottobre 1975 in poi le filiali dello Zimbabwe (allora Rhodesia) e del Sudafrica ricevettero una marea di rapporti da sorveglianti di circoscrizione, da vari comitati responsabili e da singoli fratelli che descrivevano un quadro orribile. Questi, uno dopo l’altro, vennero inviati al Corpo Direttivo dei testimoni di Geova. Appena la fratellanza mondiale fu informata della terribile situazione dei fratelli del Mozambico, incessanti preghiere a favore dei fratelli perseguitati salirono al cielo da ogni parte della terra, in armonia con il consiglio di Ebrei 13:3. Solo Geova poteva sostenerli, e li sostenne nel modo che ritenne migliore.

Molto probabilmente non era intenzione delle autorità superiori governative infliggere ai testimoni di Geova il trattamento brutale che in effetti subirono. Tuttavia alcune autorità di grado inferiore, nello sforzo determinato di cambiare convinzioni profonde, cercarono con mezzi violenti di spremere un “Viva”. Fra i molti esempi c’è quello di Julião Cossa di Vilanculos, che venne picchiato per tre ore nel vano tentativo di indurlo a rinunciare alla sua fede. Quando occasionalmente i tormentatori riuscivano a ottenere un “Viva” forzato da qualcuno, non erano ancora soddisfatti. Pretendevano che il Testimone gridasse anche “Abbasso Geova” e “Abbasso Gesù Cristo”. Le atrocità subite dai nostri fratelli sono troppo numerose per raccontarle e troppo orribili per descriverle. (Vedi Svegliatevi! del 22 maggio 1976, pagine 17-27). Ma essi sapevano che, come scrisse l’apostolo Paolo ai cristiani di Filippi nel I secolo, la loro coraggiosa presa di posizione di fronte alla tribolazione e alla persecuzione dava prova del loro profondo amore per Dio e assicurava che Egli li avrebbe ricompensati con la salvezza. — Filip. 1:15-29.

Le condizioni intollerabili dovute al sovraffollamento delle prigioni, aggravato dalla sporcizia e dalla mancanza di cibo, nel giro di quattro mesi causarono la morte di oltre 60 bambini nelle prigioni di Maputo (già Lourenço Marques). I fratelli che erano ancora liberi fecero del loro meglio per cercare di sostenere i fratelli in prigione. Negli ultimi mesi del 1975 alcuni Testimoni vendettero i loro averi per continuare a provvedere cibo ai fratelli imprigionati. Eppure identificarsi con quelli in prigione significava mettere a repentaglio la propria libertà, e molti furono arrestati mentre si prendevano cura dei bisogni dei loro fratelli. Come disse Gesù, questo era l’amore che i suoi veri seguaci avrebbero nutrito l’uno per l’altro. — Giov. 13:34, 35; 15:12, 13.

Paradossalmente, in quello stesso periodo, alcuni Testimoni della provincia di Sofala furono trattati in modo ben diverso. Appena arrestati furono portati nel lussuoso Grand Hotel di Beira e rifocillati in attesa di essere portati alla loro destinazione finale.

Quale destinazione? Era un mistero, anche per i conducenti dei numerosi autobus e camion che li avrebbero trasportati.

Destinazione: Carico, nel distretto di Milange

Tra il settembre 1975 e il febbraio 1976 tutti i testimoni di Geova che erano detenuti, sia nelle prigioni che in campi aperti, vennero trasferiti. La destinazione segreta fu un’altra arma ancora usata dalla polizia e da altre autorità locali per spaventare i fratelli. “Sarete divorati da animali feroci”, dicevano loro. “È un luogo sconosciuto al nord da dove non tornerete mai”. Familiari non credenti si unirono in un coro di pianti e lamenti, insistendo che i credenti capitolassero. Tuttavia pochissimi fecero compromessi. Anche nuovi interessati si unirono con coraggio ai testimoni di Geova. Questo fu il caso di Eugênio Macitela, fervente sostenitore di ideali politici. Il suo interesse era stato destato sentendo che le prigioni erano piene di testimoni di Geova. Per scoprire chi fossero, aveva chiesto uno studio biblico, solo per essere arrestato e deportato una settimana più tardi. Fu uno dei primi battezzati nei campi di concentramento, e ora serve come sorvegliante di circoscrizione.

I Testimoni non diedero alcun segno di timore o apprensione quando vennero prelevati dalle prigioni e caricati su autobus, camion e persino aeroplani. Uno dei convogli più imponenti partì da Maputo il 13 novembre 1975. Era composto da 14 autobus o machibombos, come vengono chiamati qui. La gioia apparentemente inspiegabile dei fratelli indusse i militari in servizio a chiedere: “Come fate a essere così felici quando non sapete neanche dove siete diretti? Dove andrete non è affatto un bel posto”. Ma la gioia dei fratelli non diminuì. Mentre i parenti non credenti piangevano, temendo per il futuro dei loro cari, i Testimoni cantavano cantici del Regno, come quello intitolato “Avanti con coraggio”.

A ogni città che incontravano per via, i conducenti telefonavano ai superiori per conoscere la loro destinazione, e ricevevano l’ordine di proseguire fino alla tappa successiva. Alcuni conducenti persero la strada. Alla fine, però, arrivarono a Milange, cittadina e sede distrettuale della provincia di Zambézia, distante 1.800 chilometri da Maputo. Là i fratelli furono accolti dall’amministratore con un “discorso di benvenuto”, una diatriba piena di minacce.

Poi furono portati 30 chilometri più a est, in un luogo chiamato Carico, sulle rive del fiume Munduzi, sempre nel distretto di Milange. Migliaia di testimoni di Geova del Malawi, fuggiti a un’ondata di persecuzione nel loro paese, vivevano lì come profughi dal 1972. L’arrivo inaspettato dei fratelli mozambicani fu una sorpresa per loro. E fu una sorpresa per i fratelli mozambicani essere accolti da fratelli che parlavano una lingua straniera. Fu comunque una sorpresa molto piacevole, e i fratelli del Malawi accolsero i Testimoni del Mozambico con tale calore e ospitalità che i conducenti ne rimasero colpiti. — Confronta Ebrei 13:1, 2.

L’amministratore distrettuale era l’uomo che anni prima era stato con i fratelli nella prigione di Machava. All’arrivo di ogni gruppo, chiedeva: “Ci sono Chilaule e Zunguza? So che verranno”. Quando il fratello Chilaule finalmente arrivò, l’amministratore gli disse: “Chilaule, non so davvero come accoglierti. Ora ci troviamo in campi opposti”. Egli si tenne le sue ideologie e non rese in alcun modo le cose facili ai suoi ex compagni di cella. Era, come si definì lui stesso, “un capro che comanda fra le pecore”.

L’amorevole sostegno della fratellanza internazionale

La fratellanza internazionale dei testimoni di Geova espresse la sua amorevole preoccupazione per i fratelli del Mozambico: gli uffici postali del paese furono inondati da messaggi indirizzati alle autorità mozambicane. In una società di telecomunicazioni i colleghi prendevano in giro Augusto Novela, un Testimone, e dicevano che i testimoni di Geova erano solo una setta locale. Furono però ridotti al silenzio quando le telescriventi cominciarono a ricevere messaggi da tutto il mondo. La straordinaria reazione era una prova del fatto che il popolo di Geova è veramente unito dall’amore.

Dopo circa dieci mesi un ministro del governo venuto a ispezionare i campi riconobbe che i fratelli erano stati imprigionati in seguito a false accuse. Ma era ancora troppo presto per aspettarsi la libertà.

Le sfide di una nuova vita

Nella storia del popolo di Geova in Mozambico si era aperto un nuovo capitolo. I fratelli del Malawi che si trovavano nella zona si erano organizzati in otto villaggi. Avevano acquistato una notevole capacità di adattamento al nuovo stile di vita nella boscaglia ed erano diventati esperti nel costruire case, Sale del Regno e persino Sale delle Assemblee. Quelli che in precedenza non erano pratichi di agricoltura impararono molto anche in questo campo. Parecchi mozambicani che non avevano mai coltivato una machamba (campo) stavano per provare per la prima volta il duro lavoro dei campi. Nei primi mesi i nuovi arrivati beneficiarono dell’amorevole ospitalità dei loro fratelli del Malawi, che li accolsero in casa e divisero con loro il cibo. Ma ormai era tempo che i fratelli del Mozambico costruissero i propri villaggi.

Non fu un’impresa facile. Era cominciata la stagione delle piogge, e la regione fu riccamente benedetta con acqua dal cielo come mai nel passato. Quando il Munduzi, che scorreva al centro del campo, straripò in una regione normalmente afflitta dalla siccità, i fratelli videro in questo un segno di come Geova avrebbe avuto cura di loro. In effetti, nei successivi 12 anni, il fiume non si prosciugò mai come era accaduto in passato. D’altra parte “il terreno fangoso e scivoloso, dovuto naturalmente alla pioggia, costituì un’ulteriore sfida per chi era vissuto in città”, ricorda il fratello Muthemba. Inoltre non era facile per le donne attraversare il fiume tenendosi in equilibrio su ponti improvvisati che non erano altro che tronchi d’albero. “Per noi uomini abituati al lavoro d’ufficio, la sfida era inoltrarsi nel fitto del bosco e abbattere alberi per costruirci una casa”, ricorda Xavier Dengo. Queste condizioni si rivelarono una prova alla quale alcuni non erano preparati.

Ricordiamo che ai giorni di Mosè le lamentele erano cominciate tra “la folla mista” che accompagnò gli israeliti fuori dell’Egitto e nel deserto, e poi si diffusero tra gli stessi israeliti. (Num. 11:4) Similmente un gruppo di lamentatori si manifestò sin dall’inizio tra coloro che non erano Testimoni battezzati, e alcuni battezzati si unirono a loro. Costoro si rivolsero all’amministratore e gli fecero sapere che erano disposti a pagare qualunque prezzo pur di essere rimandati a casa al più presto possibile. Il risultato però non fu un immediato ritorno a casa come avevano sperato. Furono trattenuti a Milange, e molti di loro diventarono come una spina nel fianco per i fedeli. Furono chiamati “i ribelli”. Vivevano in mezzo ai fratelli fedeli ma erano sempre pronti a tradirli. Il loro amore per Dio non aveva resistito nella prova.

Perché le sale crollavano

Nei campi i fratelli del Malawi avevano goduto di una considerevole libertà di adorazione. Quando arrivarono i fratelli del Mozambico, inizialmente ne godettero anche loro. Ogni giorno si radunavano in una delle grandi Sale delle Assemblee per considerare la scrittura del giorno. Spesso presiedeva un sorvegliante di circoscrizione del Malawi. “Era incoraggiante”, ricorda Filipe Matola, “dopo mesi di prigionia e di viaggio, ascoltare esortazioni spirituali in compagnia di così tanti fratelli”. Ma quella libertà relativa non durò.

Il 28 gennaio 1976 le autorità governative, accompagnate da militari, passarono per i villaggi e annunciarono: “Vi è proibito adorare o pregare in queste sale o in qualsiasi altro posto nei villaggi. Le sale saranno nazionalizzate e usate dal governo a sua discrezione”. Ordinarono ai fratelli di portare fuori tutti i libri e poi li confiscarono. Naturalmente i fratelli nascosero quelli che poterono. Poi davanti a ogni sala vennero issate bandiere e furono messi di guardia dei soldati per assicurare che il decreto venisse rispettato.

Benché fossero fatte di pali e sembrassero rustiche, le sale erano piuttosto solide. Eppure, in relativamente poco tempo, tutte cominciarono a cadere a pezzi. Xavier Dengo ricorda che una volta lui e l’amministratore erano appena arrivati in uno dei villaggi quando la sala cominciò letteralmente a crollare, anche se non pioveva e non tirava vento. L’amministratore esclamò: “Cosa succede? Siete cattivi. Adesso che abbiamo nazionalizzato le sale, crollano tutte!” Un’altra volta l’amministratore disse a uno degli anziani: “Dovete aver pregato affinché le sale crollassero, . . . e il vostro Dio le ha fatte crollare”.

L’organizzazione dei villaggi

Nove villaggi mozambicani sorsero allineati di fronte agli otto villaggi già esistenti, costruiti dai fratelli del Malawi. I due gruppi, uniti dalla “lingua pura”, sarebbero vissuti insieme per i successivi 12 anni. (Sof. 3:9) L’area di ciascun villaggio era divisa in isolati, allineati lungo strade ben tenute, e ogni isolato comprendeva otto appezzamenti di circa 25 metri per 35. Le congregazioni erano raggruppate secondo gli isolati. Dopo il divieto, nei campi non si poterono più costruire Sale del Regno che dessero nell’occhio. Perciò si costruirono invece speciali case a forma di “L”. In queste viveva una vedova o una persona non sposata per dar loro l’apparenza di abitazioni. Poi, quando si tenevano le adunanze, l’oratore stava nell’angolo della “L” così poteva guardare l’uditorio da ambo i lati.

Lungo il perimetro di ciascun villaggio c’erano le relative machambas. Ciascuna congregazione curava una “machamba di congregazione”, che tutti coltivavano a turno per sopperire ai bisogni della congregazione.

La grandezza di ciascun villaggio dipendeva dalla popolazione. Secondo un censimento del 1979 il villaggio mozambicano n. 7 era il più piccolo, con soli 122 proclamatori e 2 congregazioni, mentre nel n. 9, il più grande e il più distante, c’erano 1.228 proclamatori e 34 congregazioni. In tutto il campo c’erano 11 circoscrizioni. Questo campo, formato dai villaggi abitati da profughi del Malawi e del Mozambico e dalle aree annesse, divenne noto ai fratelli come il Circondario di Carico. L’ultimo censimento di cui abbiamo una registrazione è quello del 1981, quando gli abitanti dell’intero Circondario di Carico erano 22.529, di cui 9.000 erano proclamatori attivi. In seguito ci fu un’ulteriore crescita. (L’allora presidente, Samora Machel, affermò che gli abitanti erano 40.000, secondo l’opuscolo Consolidemos Aquilo Que Nos Une, pagine 38-9).

Ai tempi di Chingo, tempi difficili

Certo i testimoni di Geova non erano stati portati a Milange semplicemente per diventare una colonia agricola. Non senza ragione il governo chiamava il campo Centro di Rieducazione di Carico, come era dimostrato dal centro amministrativo presidiato da personale statale, con uffici e abitazioni, che si trovava nel mezzo del campo n. 4 in cui vivevano i Testimoni del Malawi. C’erano anche un comandante del campo, i suoi soldati e una prigione in cui molti fratelli furono detenuti per vari periodi, come decideva il comandante.

Il comandante più famigerato era Chingo. I due anni durante i quali rimase al comando divennero noti come i tempi di Chingo. Deciso a infrangere l’irriducibile presa di posizione dei testimoni di Geova e a “rieducarli”, per raggiungere il suo obiettivo ricorse a ogni tattica psicologica che conosceva, e anche alla violenza. Pur non avendo ricevuto nessuna istruzione formale, era un oratore dalla parola facile e persuasivo, che amava fare esempi. Usava il suo dono per cercare di indottrinare i fratelli con la sua filosofia politica e indebolire il loro amore per Dio. Una delle sue invenzioni fu “il seminario di cinque giorni”.

“Il seminario di cinque giorni”

Il comandante annunciò che era stato programmato un “seminario di cinque giorni” e che i Testimoni dovevano scegliere gli uomini più capaci dei villaggi, che fossero in grado di trasmettere informazioni interessanti. Questi sarebbero stati mandati a un seminario che si doveva tenere in una località lontana. I fratelli rifiutarono, dubitando delle sue intenzioni. Tuttavia “i ribelli” che erano presenti indicarono i fratelli che avevano incarichi di responsabilità, inclusi i sorveglianti di circoscrizione. Fra questi c’erano Francisco Zunguza, Xavier Dengo e Luis Bila. Un camion partì con 21 uomini e 5 donne a bordo. Viaggiarono per centinaia di chilometri verso nord, fino a una zona a nord di Lichinga, nella provincia di Niassa. Là gli uomini furono gettati in un “campo di rieducazione” insieme a criminali, mentre le donne furono portate in un campo per prostitute.

Furono sottoposti a terribili torture, fra cui quella definita dai loro tormentatori “alla maniera di Cristo”. Le braccia della vittima venivano tese, come su una croce, quindi si metteva un palo parallelo alle braccia. Una corda di nylon veniva legata stretta intorno alle braccia e al palo per tutta la lunghezza delle due braccia, dalla punta delle dita di una mano alla punta delle dita dell’altra. Con la circolazione completamente interrotta da mani, braccia e spalle, il malcapitato veniva tenuto in questa posizione per un considerevole periodo di tempo nel vano tentativo di fargli dire “Viva Frelimo”. A causa di questo trattamento crudele e disumano Luis Bila, un anziano fedele, ebbe un attacco di cuore e morì.

Le sorelle furono sottoposte a una serie di “esercizi”, essendo costrette a correre quasi in continuazione, a volte dentro e fuori dell’acqua, fare salti mortali senza sosta su e giù per le montagne e a subire infinite altre umiliazioni. Che seminario! Che “rieducazione”!

Nonostante questo trattamento crudele, la maggioranza di quei fratelli rimase fedele; solo due cedettero. Un fratello riuscì a spedire una lettera al ministro degli Interni a Maputo, denunciando questo trattamento. Ciò fece effetto. Il governatore del Niassa venne di persona in elicottero. Egli privò immediatamente di ogni autorità il comandante e i suoi aiutanti e dichiarò: “Costoro possono considerarsi in arresto per aver compiuto azioni che il Frelimo non ha mai voluto”. Quando gli altri prigionieri che avevano subìto un trattamento simile lo udirono, gridarono di gioia, dicendo: “Grazie a voi, siamo stati liberati”, al che i fratelli risposero: “Ringraziate Geova”.

Dopo un po’ vennero trasferiti in altri campi, dove furono sottoposti solo a lavori forzati. In tutto passarono quasi due anni prima che tornassero a Carico, e Chingo era là ad aspettarli. Egli continuò nei vani tentativi di indebolire la loro lealtà a Geova tenendo “seminari” simili. Infine, quando stava per lasciare Carico, fece un discorso nel suo caratteristico stile pieno di esempi. Ammettendo la sconfitta, disse: “Un uomo dà molti colpi a un albero, e quando non gliene rimangono molti per abbatterlo, viene sostituito da un altro uomo che, con un solo colpo, completa il lavoro. Io ho dato molti colpi, ma non sono riuscito a finire. Altri verranno dopo di me. Useranno altri metodi. Non cedete. . . . Rimanete saldi nella vostra posizione. . . . Altrimenti a loro andrà tutta la gloria”. Comunque, mantenendo forte il loro amore per Geova, i fratelli cercarono di assicurarsi che tutta la gloria andasse a Geova. — Riv. 4:11.

Quelli che rimasero nelle città

In quel tempo tutti i Testimoni del Mozambico erano in carcere o nei campi di prigionia? Per quanto i loro nemici andassero a cercarli col lanternino sul posto di lavoro e praticamente in ogni quartiere, alcuni scamparono. Non tutti volevano che fossero messi in prigione o puniti in altri modi. Ma i Testimoni erano in costante pericolo di essere presi. Attività quotidiane come comprare da mangiare o attingere acqua a una fontanella pubblica erano rischiose.

Lisete Maienda, che rimase a Beira, ricorda: “Poiché non andavo alle riunioni politiche richieste mi venne negata la carta annonaria necessaria per comprare da mangiare. Ma un negoziante amichevole mi chiamava di nascosto e mi vendeva qualche chilo di farina”. (Confronta Rivelazione 13:16, 17). Il fratello Maienda, che lavorava nel porto di Beira, fu licenziato sei volte, ma ogni volta i datori di lavoro tornavano a cercarlo perché le qualifiche professionali che aveva erano troppo preziose per la sua ditta.

Anche se dare testimonianza e radunarsi insieme erano cose molto rischiose, la luce non si spense in nessuna delle principali città del paese. A Beira un gruppo di giovani del quartiere Esturro, coraggiosi e assetati di verità, si unirono alla famiglia Maienda. Insieme fecero risplendere la luce nel capoluogo della provincia di Sofala. Quelli del gruppo di Beira erano così zelanti che, nonostante il pericolo, passavano il confine per andare in Rhodesia (ora Zimbabwe) a procurarsi cibo spirituale.

La filiale di Salisbury (ora Harare) lavorava con coraggio e senza posa per prendersi cura di tutti i fratelli sparsi nella regione settentrionale. Perciò, quando giunse notizia che alcuni si radunavano ancora a Tete, due fratelli furono mandati a occuparsi dei loro bisogni, poiché, come Epafrodito, compagno d’opera dell’apostolo Paolo, desideravano ardentemente vedere i fratelli. (Filip. 2:25-30) Uno di quei fratelli era il carissimo Redson Zulu, conosciuto in tutto il nord per i suoi stimolanti discorsi in lingua chichewa. Nonostante il pericolo lui e il suo compagno attraversavano la boscaglia in bicicletta per servire i loro fratelli mozambicani isolati.

Similmente la luce della verità continuò a risplendere nella provincia di Nampula. Alcuni non battezzati rimasero lì e, a modo loro, continuarono a tenere le adunanze. All’inizio c’erano 8 presenti, ma presto diventarono 50. Una volta un fratello fu mandato da Carico all’ospedale di Nampula, dove venne in contatto con uno del gruppo, una persona che lavorava all’ospedale. Il fratello avvertì la Società, e la filiale gli disse di studiare con il gruppo al fine di preparare per il battesimo quelli che erano idonei. Cinque si battezzarono. Essi ricevettero ulteriore aiuto quando un Testimone olandese che svolgeva un lavoro secolare a Nampula aprì la sua casa per tenervi le adunanze. Col tempo alcuni del gruppo divennero idonei per assumersi la responsabilità come anziani.

Liberati dalla prigione centrale

Nel 1975 dalle prigioni di Maputo un gruppo di detenuti dopo l’altro fu mandato al nord, mentre altri continuavano a prendere il loro posto. Poi, verso la fine di febbraio del 1976, il governo decise di porre fine all’incessante trasferimento di Testimoni detenuti.

Qualche mese dopo il presidente Samora Machel visitò la prigione centrale di Maputo. Una delle detenute, la sorella Celeste Muthemba, colse l’occasione per dargli testimonianza. Egli ascoltò in maniera amichevole, ma quando se ne andò la sorella venne aspramente rimproverata dalle autorità carcerarie. Tuttavia una settimana più tardi giunse l’ordine di scarcerazione, insieme a un documento che le garantiva la protezione da ulteriori maltrattamenti per ragioni politiche e il diritto a essere riassunta dall’ospedale centrale dove lavorava in precedenza. Inoltre venne autorizzata la liberazione di tutti i testimoni di Geova da quella prigione.

Quelli di Maputo si organizzarono in congregazioni. In poco tempo 24 congregazioni formarono una circoscrizione che da Maputo si estendeva a nord-est fino a Inhambane. Fidelino Dengo fu incaricato di visitarle. Inoltre la filiale del Sudafrica nominò un comitato di anziani per aver cura dei bisogni spirituali di questi gruppi. Essi escogitarono cauti metodi di predicazione informale. Disposero che i fratelli assistessero alle assemblee di distretto nel vicino Swaziland. E proprio in Mozambico, quando alcuni ritornarono da Carico, i fratelli tennero assemblee di circoscrizione camuffate da ricevimenti di “bentornato”.

E a Carico? Quali disposizioni erano state prese lì per le attività spirituali?

Il Comitato “O.N.” responsabile nei campi

I fratelli del Malawi, sotto la sorveglianza della filiale dello Zimbabwe, avevano formato un comitato speciale che si occupava dei bisogni spirituali nei campi. Quando i fratelli dal sud del Mozambico furono portati a Carico, beneficiarono anch’essi di questa disposizione che era già in vigore. Due fratelli del sud, Fernando Muthemba e Filipe Matola, si aggiunsero al comitato.

Il Comitato O.N. (Ofisi ya Ntchito: Ufficio Servizio, in chichewa) teneva i contatti con la Società e organizzava assemblee di circoscrizione e di distretto. Compilava i rapporti per tutto il campo e periodicamente si incontrava con gli anziani dei villaggi. Inoltre sovrintendeva all’opera delle 11 circoscrizioni. Era una grave responsabilità, specie a motivo delle precarie relazioni che i fratelli avevano con le autorità governative.

Predicare e fare discepoli nei campi

Un buon numero di interessati e studenti biblici che nel 1975 avevano accompagnato i fratelli a Milange si battezzarono nel novembre 1976.

Molti che erano stati pionieri regolari continuarono a predicare in prigione e durante il trasferimento nei campi. Ma a chi predicavano? All’inizio studiavano con chi non era ancora battezzato, inclusi i figli dei fratelli. Una famiglia numerosa era considerata un “buon territorio”. I genitori studiavano con alcuni figli, e gli altri erano divisi fra i singoli proclamatori. In questo modo molti continuarono attivamente l’opera di fare discepoli.

Ma questo non bastava a chi aveva veramente lo spirito di evangelizzazione. Un pioniere zelante cominciò a esplorare il territorio fuori dei campi. Certo questo comportava dei rischi a motivo delle limitazioni imposte dalle autorità dei campi. Egli si rese conto che avrebbe dovuto trovare qualche pretesto per lasciare i campi. Cosa poteva fare? Dopo aver pregato per avere la guida di Geova, decise di vendere sale e altri generi di consumo alla gente che viveva fuori dei campi. Chiedeva un prezzo esorbitante per evitare di concludere l’affare, mentre creava un’opportunità per dare testimonianza. Il metodo si diffuse. Col tempo si poterono vedere molti di questi “venditori” che offrivano i loro prodotti fuori dei campi. Il territorio sparso richiedeva che si percorressero lunghe distanze, partendo all’alba per ritornare di notte. Era una “vegetazione” sparsa per così tante “locuste”. Ma in questa maniera molti abitanti della zona conobbero la verità.

“Centro di produzione della Zambézia”

Grazie al lavoro diligente di quegli industriosi “studenti in rieducazione” e alle piogge benedette che bagnavano la regione, la produzione agricola prosperava. I Testimoni dei campi finirono per avere abbondanti raccolti di mais, riso, manioca, miglio, patate dolci, canna da zucchero, fagioli e frutti locali come mafura. Le rivendite di granaglie del Circondario di Carico erano strapiene. L’allevamento di volatili e animali da cortile come polli, anatre, piccioni, conigli e maiali arricchiva di proteine la loro dieta. La fame che avevano patito all’inizio divenne cosa del passato. Viceversa il resto del paese attraversava la peggiore carestia di viveri della sua storia. — Confronta Amos 4:7.

In riconoscimento di questa riuscita operazione agricola, il governo cominciò a chiamare la zona di questi campi “Centro di produzione della Zambézia”. Col ricavato della vendita delle eccedenze, i fratelli poterono acquistare abiti e persino alcune radio e biciclette. Pur essendo prigionieri, grazie alla loro diligenza erano ben forniti. Osservavano scrupolosamente le leggi dello Stato in materia di tasse: anzi, erano fra i maggiori contribuenti della regione. Secondo le norme bibliche, il coscienzioso pagamento delle tasse, anche in quelle circostanze, era uno dei requisiti per chiunque aspirasse a qualsiasi privilegio nella congregazione. — Rom. 13:7; 1 Tim. 3:1, 8, 9.

Scambio culturale

A Carico avvenne un mutuo scambio culturale e professionale. Molti impararono nuovi mestieri, come quello del muratore, del falegname e dello scultore in legno. Nel contempo divennero esperti nel fabbricare arnesi, fare lavori in ghisa, mobili di qualità, ecc. Oltre a beneficiare personalmente delle capacità acquisite o perfezionate, grazie a questa attività avevano un’altra fonte di guadagno.

La massima sfida in questo scambio culturale era costituita dalla lingua. I mozambicani impararono il chichewa parlato dai fratelli del Malawi. Questa diventò la lingua principale parlata nei campi, e quasi tutte le pubblicazioni disponibili erano in chichewa. Anche i fratelli del Malawi impararono lentamente ma bene il tsonga e le sue varianti, parlati nel sud del Mozambico. Molti impararono anche l’inglese e il portoghese, che poi sarebbero stati preziosi in speciali privilegi di servizio. Un anziano ricorda: “Potevi incontrare un fratello o una sorella che parlava bene la tua lingua e non sapevi se veniva dal Mozambico o dal Malawi”.

Come arrivava nei campi il cibo spirituale?

Veniva dalla Zambia attraverso il Malawi. In che modo? Un sorvegliante di circoscrizione rispose: “Solo Geova lo sa”. Nei campi il Comitato O.N. incaricava giovani del Malawi, molti dei quali erano pionieri, di passare il confine in bicicletta e, in una località predeterminata, incontrare coloro che erano stati mandati a consegnare corrispondenza e pubblicazioni. In questo modo le congregazioni erano rifornite di cibo spirituale aggiornato.

Inoltre i membri del Comitato O.N. passavano il confine e raggiungevano la Zambia o lo Zimbabwe per beneficiare delle visite annuali dei sorveglianti di zona mandati dal Corpo Direttivo. In questi e altri modi i fratelli di Carico mantennero forti legami con l’organizzazione visibile di Geova e quindi rimasero uniti nell’adorazione.

Le adunanze di congregazione richiesero speciali disposizioni. Poiché i fratelli erano continuamente sorvegliati, molte adunanze si tenevano all’alba o prima ancora. I presenti si radunavano fuori, come per fare colazione in cortile, mentre l’oratore prendeva posto all’interno della casa. Alcune adunanze si tenevano in riva al fiume o all’interno di crateri naturali. Ma preparare un’assemblea di distretto richiedeva molto più lavoro.

Come si organizzavano le assemblee

Una volta ricevuto dalla Società tutto il materiale per il programma, il Comitato O.N. si ritirava nel villaggio n. 9 per diverse settimane. In questo luogo relativamente appartato lavoravano tutte le notti alla luce di una lanterna per tradurre gli schemi dei discorsi, registrare i drammi e assegnare le parti agli oratori. Un piccolo ciclostile a mano ricevuto dallo Zimbabwe era particolarmente utile. Il lavoro non si fermava finché l’intero programma per la serie di sei assemblee di distretto non era completo.

Inoltre un gruppo aveva l’incarico di cercare e preparare un luogo appropriato per tenervi l’assemblea. Questo poteva trovarsi sul pendio di un monte o nel bosco, ma distante non meno di 10 chilometri dai campi. Tutto doveva avvenire all’insaputa delle autorità o dei “ribelli”. Si prendevano a prestito piccole radio portatili con le quali si allestiva un impianto acustico per un uditorio di oltre 3.000 persone. Nei pressi c’era sempre un ruscello dove, costruendo una diga, si preparava una piscina battesimale. Si doveva disporre in anticipo tutto per il palco, l’uditorio, la pulizia e la manutenzione. Finalmente il luogo per l’assemblea di distretto era pronto, ogni anno in una località diversa.

Venne escogitato un sistema che permetteva a tutti nei villaggi di assistere. Funzionava bene perché i fratelli dimostravano un meraviglioso spirito di cooperazione. Non potevano assistere tutti contemporaneamente; un villaggio vuoto avrebbe attirato l’attenzione delle autorità. Perciò i vicini facevano a turno: una famiglia assisteva un giorno, l’altra il giorno dopo. La famiglia che rimaneva a casa andava e veniva dai vicini; così nessuno notava la loro assenza. Questo significava che alcuni perdevano parti dell’assemblea? No, perché il programma di ciascun giorno veniva presentato due volte. Quindi un’assemblea di tre giorni durava sei giorni, e un’assemblea di due giorni, quattro giorni.

Un sistema di uscieri all’erta provvedeva una rete di comunicazione, che si estendeva dal centro amministrativo del campo fino al luogo dell’assemblea, con un uomo ogni 500 metri. Qualsiasi movimento sospetto che poteva costituire una minaccia per l’assemblea attivava questo sistema di comunicazione, che poteva trasmettere un messaggio a 30 o 40 chilometri di distanza in soli 30 minuti. Questo dava all’amministrazione dell’assemblea il tempo di decidere il da farsi. Poteva significare concludere l’assemblea e nascondersi nel bosco.

José Bana, un anziano di Beira, ricorda: “Una volta un poliziotto ci avvertì la sera prima che erano già a conoscenza della nostra assemblea e l’avrebbero interrotta. La cosa fu riferita ai fratelli responsabili. Dovevano annullare l’assemblea? Essi pregarono Geova e decisero di aspettare fino all’indomani mattina. La risposta non si fece attendere: durante la notte una pioggia torrenziale fece straripare il fiume Munduzi, trasformandolo in un mare. Poiché la polizia era dall’altra parte del fiume, tutti poterono assistere all’assemblea, senza bisogno che qualcuno rimanesse a casa e senza bisogno della rete di comunicazione umana. Cantammo i cantici del Regno a volontà”.

L’apostasia e il villaggio n. 10

Un movimento che causò molte difficoltà ebbe inizio con un gruppo di apostati che si definivano “gli unti”. Questo gruppo, che ebbe origine principalmente nei villaggi abitati da fratelli del Malawi, sosteneva che “l’era degli anziani” era terminata nel 1975 e che dovevano essere loro, “gli unti”, a prendere la direttiva. Il materiale contenuto nel libro della Società Vita eterna, nella libertà dei figli di Dio, fu un valido mezzo per aiutare chi aveva dubbi a capire cosa implicava la vera unzione. Ma l’influenza degli apostati si diffuse, e molti che li ascoltarono vennero sviati. Come parte della loro dottrina, dicevano che non era necessario inviare rapporti alla Società. Essi si limitavano a lanciarli in aria dopo aver detto una preghiera.

Si calcola che circa 500 persone furono disassociate in seguito a questa influenza apostata. Costoro decisero per proprio conto, e con il permesso delle autorità, di costruirsi un villaggio, che diventò il villaggio n. 10. In seguito il capo del movimento si circondò di uno stuolo di giovani donne, da molte delle quali ebbe dei figli.

Il villaggio n. 10 e il suo gruppo continuarono a esistere per il restante periodo di vita nei campi. Essi causarono molte difficoltà ai fratelli fedeli. Alcuni che inizialmente furono indotti a unirsi al gruppo poi si pentirono e rientrarono nell’organizzazione di Geova. La comunità apostata infine si disperse quando terminò la vita nei campi.

“Il campo è la nostra prigione, e le case sono le nostre celle”

Fino all’inizio del 1983 la vita nei campi ebbe un’apparenza di normalità. Ma i nostri fratelli non dimenticavano che erano prigionieri. È vero che alcuni, per proprio conto, riuscirono a tornare alle proprie città. Altri andavano e venivano. Ciò nonostante la comunità nel suo insieme rimase. Era solo naturale che desiderassero ardentemente la casa da cui erano venuti. Si scambiavano lettere sia tramite il servizio postale che per mano dei pochi fratelli che ebbero il coraggio di venire nei campi a trovare parenti e vecchi amici, anche se alcuni di questi fratelli furono sorpresi e imprigionati.

Xavier Dengo soleva scherzare: “Voi del Malawi siete profughi, ma noi siamo prigionieri. Il campo è la nostra prigione, e le case sono le nostre celle”. In effetti però la situazione dei fratelli del Malawi era molto simile. L’apparente normalità dei villaggi stava per avere una brusca fine.

L’invasione armata semina panico e morte

All’inizio del 1983 uomini armati del movimento di resistenza cominciarono a invadere la regione di Carico, costringendo il comandante del centro amministrativo a cercare rifugio nella sede distrettuale di Milange, distante 30 chilometri. Per un periodo relativamente breve sembrò che i fratelli potessero tirare un sospiro di sollievo, anche se erano ancora sotto la sorveglianza delle autorità.

Tuttavia la tragedia si abbatté su di loro il 7 ottobre 1984, mentre stavano ultimando i preparativi per l’assemblea di distretto. Un gruppo di uomini armati si avvicinò da est. Mentre si facevano strada attraverso il villaggio n. 9, si lasciarono dietro una scia di panico, sangue e morte. Dopo avere ucciso il fratello Mutola nel villaggio malawiano n. 7, uccisero Augusto Novela nel villaggio mozambicano n. 4. Nel villaggio mozambicano n. 5 il fratello Muthemba fu messo in allarme dal rumore degli spari. Quando vide il corpo di un fratello per terra, chiese a gran voce aiuto a Geova. Gli uomini armati incendiavano e saccheggiavano le case. Uomini, donne e bambini correvano all’impazzata in ogni direzione, cercando disperatamente riparo. Questo attacco violento fu solo il preludio di quello che doveva venire. Dopo avere attraversato i campi, il gruppo scelse un’area a nord del villaggio n. 1 per stabilirvi la propria base.

Nei giorni successivi fecero incursioni giornaliere nei campi, saccheggiando, incendiando case e uccidendo. In una di queste occasioni uccisero sei Testimoni del Malawi, fra cui la moglie di Fideli Ndalama, un sorvegliante di circoscrizione.

Altri furono portati prigionieri alla base del gruppo. Soprattutto i giovani furono sottoposti a tentativi di arruolamento forzato nel loro movimento militarizzato. Molti giovani fuggirono dai villaggi per nascondersi nelle machambas (i campi che coltivavano), dove i familiari portavano loro da mangiare. Le giovani furono reclutate come cuoche, ma poi gli invasori cercarono di costringerle a servire come “amanti”. Hilda Banze fu tra quelle che resisterono a simili pressioni e perciò fu picchiata con tale violenza che fu lasciata per morta. Nonostante tutto, si riprese.

Gli uomini armati esigevano che la popolazione provvedesse al loro sostentamento e portasse la loro attrezzatura. I fratelli trovarono questa richiesta incompatibile con la loro posizione di neutralità cristiana e perciò rifiutarono. Il loro rifiuto venne accolto con rabbia. Neutralità e diritti umani erano fuori luogo in un mondo isolato in cui botte e armi erano l’unica legge riconosciuta. Una trentina di fratelli morirono in quel periodo turbolento. Uno di questi fu Alberto Chissano, che rifiutò di prestare qualsiasi sostegno e cercò di spiegare: “Non mi occupo di politica, e per questa ragione sono stato portato qui da Maputo. Ho rifiutato in passato, e non sarà diverso ora”. (Confronta Giovanni 18:36). Fu troppo per gli oppressori, che furibondi lo trascinarono via. Sapendo cosa sarebbe sicuramente accaduto, il fratello Chissano salutò i fratelli dimostrando la sua fede incrollabile. “Arrivederci nel nuovo mondo” furono le sue ultime parole prima di essere picchiato con violenza e ferito mortalmente. I fratelli dell’équipe sanitaria cercarono di salvarlo, ma inutilmente. E così sarebbe stato, un “arrivederci nel nuovo mondo”, poiché neanche la minaccia di morte poté infrangere la sua fede. — Atti 24:15.

Liberati da una fornace ardente

La tensione era insostenibile: si doveva fare qualcosa per allentarla. Il Comitato O.N. si incontrò con gli anziani e i servitori di ministero per discutere come tentare un dialogo con il movimento di resistenza. Ma gli uomini del movimento di resistenza avevano già invitato tutti gli abitanti della zona a venire alla loro base. Gli anziani decisero di andare, insieme a un buon numero di Testimoni che si offrirono di accompagnarli. Due fratelli furono incaricati di parlare a nome di tutti i villaggi. Isaque Maruli, uno dei portavoce nominati, andò a casa a informare e salutare la giovane moglie. Temendo ciò che poteva accadere, lei cercò di dissuaderlo. Lui le disse parole di conforto e le chiese: “Pensi che siamo sopravvissuti fino a questo momento per nostra bravura? E pensi che noi siamo più importanti degli altri fratelli?” Lei annuì in silenzio. Pregarono insieme e poi si salutarono.

All’adunata erano presenti non solo i Testimoni, ma anche non Testimoni pronti a sostenere il movimento armato. I fratelli però, circa 300, erano più numerosi degli altri. Fu una riunione accalorata, con gente che gridava slogan politici e cantava inni militari. Venne fatto un annuncio: “Oggi grideremo ‘Viva Renamo’ (Resistência Nacional de Moçambique, il movimento che lottava contro il governo del Frelimo) finché faremo cadere le foglie dagli alberi”. Il comandante, i militari e quelli che non erano Testimoni si spazientirono per il silenzio dei fratelli. Un commissario politico che presiedeva la riunione spiegò l’ideologia del movimento. Disse che il comando supremo era deciso a smantellare i villaggi e a far sì che tutti si disperdessero e vivessero nelle machambas. Quindi diede ai presenti l’opportunità di esprimersi. I nostri fratelli spiegarono la loro posizione neutrale. Speravano che avrebbero capito le ragioni per cui non partecipavano ad attività come provvedere generi alimentari, trasportare attrezzatura, ecc. In quanto ad abbandonare i villaggi, erano già stati costretti a farlo.

Al comandante la coraggiosa risposta dei fratelli non piacque affatto, ma, provvidenzialmente, il commissario fu più comprensivo. Egli calmò il comandante e mandò via i fratelli in pace. Quindi essi uscirono vivi da quella che descrissero come una “fornace ardente”. (Confronta Daniele 3:26, 27). Tuttavia non c’era nessuna garanzia di pace. L’avvenimento più sconvolgente doveva verificarsi qualche giorno dopo.

Il massacro del villaggio n. 7

Benché splendesse il sole, a Carico la domenica 14 ottobre 1984 si rivelò una giornata nera. Nelle prime ore del giorno i fratelli avevano tenuto la loro adunanza di congregazione, dopo di che alcuni si recarono nei villaggi per prendere le cose rimaste prima di ritornare in fretta nelle loro nuove case in mezzo ai campi coltivati. Senza preavviso, un gruppo armato lasciò la base e si diresse verso il villaggio mozambicano n. 7. Nei pressi del villaggio n. 5 catturarono un fratello e gli chiesero: “Indicaci la strada per il villaggio n. 7; vedrai cos’è la guerra”. Arrivati al villaggio, radunarono tutti quelli che vi si trovavano. Li fecero sedere in cerchio, nell’ordine in cui erano numerati i loro villaggi. Poi iniziò l’interrogatorio.

“Chi ha picchiato e derubato il nostro mudjiba [informatore o sentinella disarmata]?”, chiesero. I fratelli, ignari delle cose di cui gli uomini stavano parlando, risposero che non lo sapevano. “Bene, se nessuno parla, infliggeremo a quest’uomo seduto qui davanti una punizione che serva di esempio per tutti”. E spararono a bruciapelo a un fratello alla fronte. Tutti rimasero scossi. La domanda fu ripetuta più volte, e ogni volta una nuova vittima si aspettava lo sparo. Donne che stringevano fra le braccia i loro bambini furono costrette ad assistere alla barbara esecuzione del proprio marito, come la sorella Salomina, che si vide ammazzare il marito, Bernardino. Furono assassinate anche delle donne. Leia Bila, moglie di Luis Bila, che era morto di un attacco di cuore nel campo vicino a Lichinga, fu una di queste, e così i suoi bambini rimasero orfani. Le esecuzioni non risparmiarono neanche i ragazzi, come Fernando Timbane, che, anche dopo essere stato colpito, pregò Geova e cercò di incoraggiare gli altri.

Quando dieci vittime erano state giustiziate così brutalmente, sorse una disputa fra i militari, che pose fine all’incubo. Al loro comando il fratello Nguenha, che avrebbe dovuto essere l’undicesima vittima, si alzò dalla “sedia della morte”. Egli racconta: “Avevo pregato Geova di prendersi cura della mia famiglia superstite, dato che stavo per morire. Poi mi alzai in piedi e provai un insolito coraggio. Solo più tardi mi sentii scosso”.

I superstiti furono quindi costretti a incendiare le rimanenti case dei villaggi. Prima di andarsene, gli uomini armati avvertirono: “Siamo venuti con l’ordine di ammazzare 50 di voi, ma questi bastano. Non devono essere sepolti. Faremo la guardia, e se qualche cadavere scompare, dieci moriranno per ognuno che manca”. Che ordine strano e ripugnante!

Il rumore degli spari echeggiava ancora nell’aria e, quando la notizia si sparse insieme a quelli che erano riusciti a scampare, una nuova ondata di panico travolse i villaggi. Per la disperazione i fratelli fuggirono nei boschi e sulle montagne. Solo più tardi si seppe che le domande accusatrici che avevano provocato il massacro erano state suggerite da un disassociato che desiderava unirsi al movimento di resistenza. Egli era diventato anche ladro. Aveva mosso le false accuse contro i fratelli del suo stesso villaggio nel tentativo di conquistare la fiducia del gruppo e ingraziarselo. In seguito, quando gli uomini scoprirono di essere stati ingannati, arrestarono l’originatore di quelle menzogne e lo misero a morte nel modo più barbaro.

Inizia la dispersione

L’intero Circondario di Carico era addolorato e disorientato. Gli anziani, anch’essi in lacrime, cercavano di consolare le famiglie che piangevano i loro cari periti nel massacro. L’idea di rimanere nella zona era insopportabile. Cominciò dunque a verificarsi una dispersione naturale. Intere congregazioni cercarono luoghi lontani anche 30 chilometri, dove potessero sentirsi più al sicuro. Alcuni decisero di rimanere nelle machambas. Perciò il lavoro degli anziani del Comitato O.N. raddoppiò. Dovevano percorrere molti chilometri a piedi per assicurare l’unità e la sicurezza fisica e spirituale del gregge di tutte le congregazioni sparpagliate.

Notizie di questa triste situazione raggiunsero la filiale dello Zimbabwe, che dispose quindi che membri della filiale visitassero i fratelli per incoraggiarli. Consultarono anche il Corpo Direttivo a Brooklyn riguardo alla necessità di viveri, indumenti e medicinali nei campi di Milange. Profondamente preoccupato per il benessere dei fratelli, il Corpo Direttivo diede istruzioni di usare le risorse finanziarie disponibili per far fronte ai loro bisogni e, se l’avessero ritenuto opportuno, prendere provvedimenti affinché lasciassero la zona di Milange e tornassero alle loro regioni di origine. Questo suggerimento parve davvero opportuno.

All’inizio del 1985 membri del Comitato O.N. partirono da Milange, come avevano fatto ogni anno, per incontrarsi con il sorvegliante di zona, mandato dal Corpo Direttivo. Don Adams era arrivato da Brooklyn. In un’adunanza a cui parteciparono anche i Comitati di Filiale della Zambia e dello Zimbabwe, i membri del Comitato O.N. esternarono le loro preoccupazioni in relazione al Circondario di Carico. Fu consigliato loro di riflettere se era saggio rimanere a Carico. Si richiamò l’attenzione sul principio biblico esposto in Proverbi 22:3: “Accorto è chi ha visto la calamità e va a nascondersi”. Con questo in mente, tornarono nei campi.

Andarsene? Come? E dove?

Il consiglio fu subito comunicato alle congregazioni. Alcuni lo seguirono prontamente, come João José, un fratello scapolo che in seguito partecipò alla costruzione degli edifici della filiale della Zambia e di quella del Mozambico. Insieme ad altri, egli passò il confine del Malawi e poi della Zambia senza grossi problemi.

La cosa però non fu così facile per altri. Molte famiglie dovevano tener conto dei bambini piccoli. Gli uomini del movimento di resistenza sorvegliavano di continuo le strade, e qualunque viaggiatore era soggetto ad attacchi. Il confine col Malawi presentava un’altra sfida, specie per i fratelli di quel paese, dove i testimoni di Geova erano ancora disprezzati e perseguitati. Perciò le domande imbarazzanti erano: Come se ne sarebbero andati? Dove sarebbero andati? Essendo vissuti tutti quegli anni nella boscaglia e senza documenti, come facevano a passare il confine? “Neanche noi lo sappiamo”, fu la risposta dei membri del Comitato O.N., in quella che si rivelò un’adunanza estremamente tesa con tutti gli anziani. “Una cosa è certa: dobbiamo disperderci”. E conclusero: “Dite tutti una preghiera, fate i vostri piani e agite”. — Confronta 2 Cronache 20:12.

Nei mesi successivi questo fu il tema principale delle adunanze. La maggioranza degli anziani era del parere di andarsene e incoraggiava i fratelli a farlo. Altri decisero di rimanere. Alla fine iniziò un esodo sparso. I fratelli del Malawi che avevano fatto il tentativo di tornare a casa furono fermati alla frontiera per le ragioni di sempre e dovettero ritornare. Questo smorzò l’entusiasmo di quelli che avevano deciso di andarsene e diede ragione a chi preferiva restare. Un “invito” a un’altra “adunata importante” alla base militare si rivelò per i più il fattore decisivo.

Esodo in massa

Il 13 settembre 1985, solo due giorni prima dell’annunciata adunata, i fratelli Muthemba, Matola e Chicomo, i tre membri del Comitato O.N. rimasti, si incontrarono di nuovo. Cosa dovevano consigliare ai fratelli riguardo all’“invito”? L’adunanza durò tutta la notte. Dopo aver pregato e ponderato a lungo, risolsero: “Dovremo fuggire domani sera”. Immediatamente, per quanto possibile, comunicarono la notizia e anche l’orario e il luogo di incontro. Le congregazioni disposte a partire si presentarono. Questo fu l’ultimo provvedimento preso dal Comitato O.N. nei campi.

A partire dalle 20,30, dopo aver pronunciato una preghiera, i fratelli iniziarono un esodo cronometrato. Il loro esodo fu tenuto ben segreto ai militari e ai “ribelli”. Sarebbe stato un disastro essere scoperti. Col favore delle tenebre, ogni congregazione aveva 15 minuti per sgombrare e a ogni famiglia erano concessi 2 minuti. La lunga fila indiana serpeggiava in silenzio attraverso la boscaglia, senza che nessuno sapesse cosa sarebbe successo all’alba al confine del Malawi, se ce la facevano a raggiungerlo. I pastori spirituali del Comitato O.N. furono gli ultimi a partire, alla una. — Atti 20:28.

Dopo aver percorso una quarantina di chilometri, Filipe Matola, che non dormiva da due giorni, fu sopraffatto dalla fatica. Si appisolò a lato del sentiero in attesa che passassero i più anziani. Possiamo ben immaginare che gioia dovette provare quando suo “nipote”, Ernesto Muchanga, venne di corsa dall’inizio della colonna, con la buona notizia: “‘Zio’, i fratelli vengono accolti nel Malawi!” “Questo è un esempio”, esclamò Matola, “di come Geova apre la via, quando sembra che non ci sia via di uscita, come al Mar Rosso”. — Eso. 14:21, 22; vedi Salmo 31:21-24.

Quindi per diversi mesi provarono cosa significa vivere nei campi profughi del Malawi e della Zambia, prima di ritornare nel Mozambico e nelle loro città di origine. Ma cosa accadde a coloro che rimasero nella zona di Carico?

Quelli che rimasero

La risoluzione del Comitato O.N. non pervenne a tutte le congregazioni lontane prima che iniziasse l’esodo. Alcuni che udirono l’annuncio decisero di rimanere e di andare all’adunata alla base militare. La congregazione Maxaquene e altre non avevano sentito l’annuncio ma avevano già deciso di fuggire. Prima di andare all’adunata, i fratelli fecero preparare la propria famiglia per la fuga. Circa 500 fratelli si presentarono all’adunata, che fu breve e concisa. Il comandante disse: “I nostri superiori hanno deciso che tutti i presenti devono venire alla nostra principale base regionale. Sarà un viaggio lungo. Ci rimarrete tre mesi”. E il viaggio cominciò immediatamente.

Approfittando della scarsa vigilanza da parte dei militari, i fratelli che avevano deciso di fuggire se la svignarono. Raggiunsero la famiglia e scapparono in qualunque modo possibile verso il confine col Malawi. Altri, sia per sottostare agli ordini del movimento armato sia per mancanza di opportunità, iniziarono il viaggio a sud-ovest verso la base di Morrumbala, dove arrivarono parecchi giorni dopo. Una volta lì, furono sottoposti a ulteriori pressioni perché sostenessero il movimento. Il loro rifiuto fu seguito da terribile tortura e innumerevoli percosse, durante le quali almeno un fratello morì. Tre mesi dopo ricevettero finalmente il permesso di tornare a casa.

Molti restarono nella zona di Carico, completamente sotto il controllo del movimento di resistenza. Per i successivi sette anni rimasero isolati dal resto dell’organizzazione di Geova. Erano un gruppo numeroso, che includeva circa 40 congregazioni. Sopravvissero spiritualmente? Il loro amore per Dio sarebbe stato abbastanza forte da impedire loro di cedere alla disperazione? Più avanti riparleremo di loro.

I campi profughi del Malawi e della Zambia

Non tutti coloro che erano fuggiti da Carico furono accolti prontamente nel Malawi. La congregazione Maxaquene, mentre stava riposando dopo aver attraversato il confine, venne scoperta dalla polizia del Malawi e ricevette l’ordine di tornare indietro. I fratelli supplicarono la polizia, spiegando che fuggivano dalla guerra che infuriava nella zona in cui erano vissuti. La polizia rimase indifferente. Non avendo in apparenza altra scelta e per la disperazione, qualcuno gridò: “Fratelli, non ci resta che piangere!” Ed è esattamente quello che fecero, e così forte che attirarono l’attenzione del vicinato. Gli agenti, imbarazzati, li invitarono a smettere. Una sorella implorò: “Lasciateci almeno preparare qualcosa da mangiare per i bambini”. Gli agenti cedettero alla sua richiesta, dicendo che sarebbero tornati più tardi. Non tornarono mai. In seguito qualcuno che aveva autorità venne in aiuto dei Testimoni, portando viveri e indirizzandoli al campo profughi dove si trovava il resto dei fratelli.

I testimoni di Geova del Mozambico stavano ora riversandosi nei campi profughi del Malawi. Il governo del paese li accolse come profughi di guerra. La Croce Rossa Internazionale li assisté, portando approvvigionamenti per alleviare i disagi e le difficoltà causati dall’inclemenza del tempo nei campi all’aperto. Alcuni proseguirono per la Zambia, dove furono destinati ad altri campi profughi. Filipe Matola e Fernando Muthemba ora cooperavano con il comitato che sovrintendeva all’opera nel Malawi, andando in questi campi a cercare i fratelli mozambicani per provvedere loro conforto spirituale e l’aiuto finanziario che era stato autorizzato dal Corpo Direttivo.

Il 12 gennaio 1986 A. D. Schroeder, membro del Corpo Direttivo, impartì incoraggiamento spirituale ed espresse l’affetto del Corpo Direttivo per quei fratelli. Anche se non poté entrare nei campi, pronunciò un discorso in Zambia che fu tradotto in chichewa, registrato e quindi portato nei campi dove si trovavano i fratelli del Mozambico.

Un po’ alla volta questi furono aiutati a raggiungere la tappa successiva, in Mozambico, che per molti fu Moatize, nella provincia di Tete. Sì, in Mozambico l’atteggiamento del governo verso i testimoni di Geova stava cambiando, benché non tutti i funzionari locali ne dessero ancora prova.

Ritorno in Mozambico

Un gruppo dopo l’altro cominciarono lentamente a riversarsi nei sobborghi a est della città di Tete. Carrozze ferroviarie abbandonate, già usate come gabinetti pubblici, servirono per dare loro alloggio. Dopo essere state ripulite, molte di queste furono usate come luoghi di adunanza per la Commemorazione della morte di Cristo tenuta il 24 marzo 1986.

Fratelli di tutto il Mozambico attesero lì per mesi senza sapere come sarebbero stati riportati nei loro luoghi di origine. Questa attesa ebbe la sua parte di tribolazione. Essi cercarono di escogitare qualche specie di lavoro che li aiutasse a mantenersi o a mettere da parte un po’ di denaro per un biglietto aereo, ma senza molto successo. A motivo della guerra, era impossibile viaggiare per le strade. Non sempre erano trattati benevolmente dalle autorità locali, che cercavano ancora di costringerli a ripetere slogan politici. In questi casi i fratelli rispondevano con sicurezza: “Siamo stati portati a Carico per questo. Là abbiamo scontato la nostra pena e siamo stati abbandonati alla mercé di aggressori armati. Siamo scampati con i nostri mezzi. Cosa volete ancora da noi?” Con questa risposta venivano lasciati in pace. I giovani invece continuarono a essere tormentati e incarcerati. Si cercava di arruolarli nell’esercito governativo che combatteva l’insurrezione armata ancora in atto nella regione. Molti fratelli giovani ricorsero a qualsiasi possibile astuzia per fuggire e nascondersi.

Il comitato nel Malawi decise che Fernando Muthemba doveva andare a Tete per dare aiuto ai fratelli che erano lì. Quando il fratello Muthemba arrivò a Moatize, le autorità decisero di ispezionare il suo bagaglio. Appena in tempo i fratelli riuscirono a mettere al sicuro le pubblicazioni in suo possesso. Perciò quando gli agenti perquisirono le sue borse, cosa trovarono? “Solo stracci”, egli dice. Gli agenti delusi chiesero: “È tutto qui?” Sì, era tutto lì. Quello era tutto il bagaglio di un uomo a cui erano state affidate così gravi responsabilità nei campi. Come gli altri, era stato spogliato di tutto ciò che aveva. Infatti, in quel momento, l’aspetto fisico dei fratelli non era affatto piacevole: sporchi, laceri, affamati ed evidentemente maltrattati. Corrispondevano proprio alla descrizione ispirata di molti servitori di Dio del passato: “Andarono in giro in pelli di pecora, in pelli di capra, mentre erano nel bisogno, . . . maltrattati; e il mondo non era degno di loro. Errarono per deserti . . . e spelonche e caverne della terra”. — Ebr. 11:37, 38.

Finalmente a Maputo!

A Maputo un comitato nominato dalla Società si mise in contatto con vari enti governativi e non governativi, per cercare di trovare un mezzo di trasporto per i fratelli che erano a Tete e nella Zambia. Come furono felici Isaque Malate e Francisco Zunguza quando, andando all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, furono informati: “Sono già stati autorizzati più di 50 voli per riportare qui i testimoni di Geova”! Furono grati che il governo avesse dato l’autorizzazione.

Ignari di questa disposizione, i fratelli che si trovavano a Tete, tutti in campi vicino all’aeroporto, andavano ogni giorno all’aeroporto nella speranza che in qualche aereo da carico ci fosse posto almeno per alcuni di loro. Fernando Muthemba parla con commozione del 16 maggio 1987: “Erano le 7,30. Quando guardai l’aeroporto, vidi due grandi Boeing che dovevano iniziare il ‘ponte aereo’ per trasportare tutti i testimoni di Geova a Maputo”. Che prospettiva elettrizzante! Dopo 12 anni, tornare nelle loro città!

Purtroppo il loro aspetto era tutt’altro che presentabile. Emídio Mathe, anziano della congregazione Maxaquene, si fece prestare un paio di pantaloni da qualcuno che ne aveva più di uno per poter arrivare a Maputo discretamente vestito. Inoltre i fratelli che li aspettavano a Maputo portarono indumenti sugli aerei così che i rifugiati potessero sbarcare con una certa dignità. Si vergognavano? “No”, risponde Emídio, “anche se eravamo stati spogliati materialmente, avevamo la speranza che un giorno Geova si sarebbe servito di noi per esaltare il suo nome. Non ci preoccupavamo dei beni materiali; non ci vergognavamo. Andavamo in giro laceri, ma la nostra fede in Geova era intatta”. I fratelli del Sudafrica e dello Zimbabwe furono lieti di inviare tonnellate di viveri e indumenti ai loro fratelli tornati nel Mozambico.

Altri mezzi di trasporto furono provveduti dal governo per i Testimoni che ritornavano in altre province. Per coloro che ritornavano nella provincia di Sofala, nella zona nota come il Corridoio di Beira (a motivo della protezione provveduta da militari dello Zimbabwe), ci sarebbero stati ancora problemi. Diciotto di loro, incluso un anziano, furono catturati e portati in una base del movimento di resistenza.

‘Geova è grande, Geova è grande!’

Dopo averli interrogati ed essersi reso conto che erano testimoni di Geova, il comandante della base chiamò un religioso che era a capo di una chiesa della zona sotto il controllo del movimento di resistenza, e gli disse: “Questi sono testimoni di Geova e adesso pregheranno con voi. Trattateli bene”. Con sorpresa dei fratelli questo pastore (che qualche tempo prima nello Zimbabwe aveva preso alcune pubblicazioni della Watch Tower) scosse la testa ed esclamò: “Geova è grande . . . Geova è grande!” E proseguì: “Avevamo pregato Geova che ci mandasse almeno una persona a insegnarci”.

L’indomani radunò i 62 fedeli della sua chiesa e invitò l’anziano a parlare loro. Il fratello cominciò dicendo che tutte le loro immagini dovevano essere eliminate. (Deut. 7:25; 1 Giov. 5:21) Essi prontamente lo fecero. Spiegò inoltre che oggi Geova non approva né autorizza l’espulsione di demoni da parte dei suoi servitori e che il rituale rullo dei tamburi non fa parte della vera adorazione descritta nella Bibbia. (Matt. 7:22, 23; 1 Cor. 13:8-13) In conclusione il capo del gruppo si alzò e disse: “A partire da oggi, la mia famiglia ed io siamo testimoni di Geova”. L’intera congregazione, con l’eccezione di una coppia, espresse lo stesso desiderio.

Durante i quattro mesi che rimasero lì i fratelli tennero regolarmente le adunanze. Quando arrivò il momento di partire, portarono con sé un buon numero di loro, molti dei quali in precedenza erano stati membri attivi delle fazioni in lotta.

Molti si unirono al popolo di Geova in quel periodo perché, nonostante le difficili condizioni di vita, i fratelli non avevano mai smesso di predicare la buona notizia del Regno di Dio e di fare discepoli. — Matt. 24:14; 28:19, 20.

Ritorno nelle città

I fratelli furono grati di ritornare nelle città. Ma senza documenti, senza un posto in cui vivere né un lavoro secolare, per loro la vita continuò a essere dura. Era una nuova fase della loro vita piena di problemi. La nazione stessa era in preda a sconvolgimenti, piagata da guerra civile, fame, siccità e disoccupazione. Il popolo di Geova sarebbe riuscito a rialzarsi in mezzo a tali difficoltà?

Il governo venne in loro aiuto creando il Dipartimento per la Riabilitazione Sociale. Molti Testimoni riebbero il loro impiego di un tempo, occupando posizioni importanti in ditte del settore pubblico o privato. Altri diventarono imprenditori.

Molti poterono ritornare nelle abitazioni di un tempo, poiché ci abitavano ancora dei parenti. Per altri invece la situazione non era così facile. Le loro case erano state occupate da estranei o da parenti contrari o erano state nazionalizzate. Mostrandosi mansueti, i Testimoni di ritorno decisero di non causare scompiglio, contrariamente a quello che il governo poteva aver temuto. I Testimoni che non erano stati mandati nei campi aprirono le proprie case ai fratelli senzatetto. Un po’ alla volta questi trovarono o costruirono un posto in cui sistemarsi. Geova ha benedetto la loro diligenza e oggi molti hanno una bella casa, con grande sorpresa di quanti avevano osservato la condizione pietosa in cui erano tornati. È degno di nota che in mezzo alla miseria dilagante neanche un testimone di Geova fu costretto a chiedere l’elemosina. Alcuni anni dopo, quando venne offerta la possibilità di avere casa propria acquistandola dallo Stato, la prima persona di tutto il paese che fece questo fu un testimone di Geova reduce da Carico. Attualmente il deposito della letteratura a Maputo si trova lì.

Tuttavia la principale preoccupazione dei fratelli non era ottenere una casa o godere altri vantaggi materiali. Era più importante trovare luoghi in cui tenere le adunanze per l’adorazione. Dopo tutto, non era questa la ragione principale per cui Geova li aveva fatti tornare a casa sani e salvi? Era proprio quello che i fratelli credevano fermamente. (Confronta Aggeo 1:8). Improvvisarono subito Sale del Regno di ogni sorta: in cortili, soggiorni, cucine, in capanne di lamiera e paglia; qualche volta — che lusso — si radunavano in aule scolastiche o sale di riunione di ospedali prese in affitto. La maggior parte delle 438 congregazioni del Mozambico si raduna ancora in simili Sale del Regno di fortuna. Le eccezioni sono rare. Una di queste è a Beira dove, con l’aiuto della filiale dello Zimbabwe e della sua valorosa squadra di operai edili, i fratelli superarono molti ostacoli e finalmente, il 19 febbraio 1994, dedicarono le prime due Sale del Regno di mattoni del Mozambico.

Comitati speciali e riconoscimento giuridico

Per aver cura dei bisogni materiali e spirituali dei fratelli che andavano riorganizzando la propria vita, il Corpo Direttivo nominò dei comitati speciali a Tete, Beira e Maputo, sotto la sorveglianza delle filiali dello Zimbabwe e del Sudafrica. Questa disposizione permetteva di prestare maggiore attenzione alle congregazioni. Al fine di provvedere la letteratura biblica di cui c’era tanto bisogno, in queste città furono istituiti depositi, che servivano anche come centri di distribuzione dei soccorsi in viveri e indumenti. Si organizzarono assemblee di circoscrizione e di distretto, benché ci fossero ancora ostacoli da superare prima di poterle tenere apertamente.

Poi l’11 febbraio 1991 l’elettrizzante notizia si diffuse in tutto il paese, per la gioia del popolo di Geova in tutto il mondo. Il governo del Mozambico aveva concesso il riconoscimento giuridico all’Associação das Testemunhas de Jeová de Moçambique (Associazione dei Testimoni di Geova del Mozambico). Fernando Muthemba, che si era lealmente preso cura dei fratelli a Carico, ne sarebbe stato il primo presidente. I servitori di Geova si rallegravano inoltre di avere fra loro in Mozambico i primi missionari della Scuola di Galaad. Questi vivevano in case missionarie a Maputo e a Beira. Ma si stava preparando una casa anche a Tete per accogliere altri missionari che sarebbero arrivati di lì a poco.

I missionari rallegrano i loro fratelli

In Mozambico si apriva un vero campo missionario. Pieni di abnegazione e desiderosi di prendere parte alla ricostruzione e alla mietitura spirituale nel Mozambico, diplomati di Galaad e pionieri speciali esperti che avevano già servito in altri campi accettarono prontamente di servire qui. Venivano da cinque continenti, molti da paesi di lingua portoghese come il Brasile e il Portogallo. Il loro nuovo incarico non era senza problemi, poiché nel 1990 e 1991 il paese stava appena cominciando a uscire dalla difficile situazione economica provocata dalla guerra e dalla siccità. Hans Jespersen, un missionario danese che aveva servito in Brasile e attualmente serve come sorvegliante di distretto, ricorda: “Nei negozi non c’era praticamente niente, e i segni della guerra e delle sue conseguenze erano ben visibili”. Ma si nota già una costante ripresa economica. Ciò nonostante molti nostri fratelli nel nord e nelle zone rurali vivono ancora in condizioni estremamente difficili.

Molte situazioni che i missionari dovettero affrontare erano nuove per loro. Per esempio, prima della firma del trattato di pace tra il governo del Frelimo e la Renamo, a volte i missionari dovevano viaggiare in colunas (colonne di veicoli scortati dalle forze armate governative), e qualche volta queste venivano attaccate. Ma provarono molta gioia conoscendo i fratelli; e per molti di questi fratelli incontrare Testimoni di altre razze e nazionalità era un sogno divenuto realtà.

In una zona remota del nord, un bambino camminò tutto il giorno con suo padre per vedere un missionario australiano. Osservando l’espressione di stupore sulla faccia del bambino, il padre disse: “Non ti avevo detto che abbiamo fratelli bianchi?” Molti, nel salutare i missionari, esprimevano la loro gioia dicendo: “Sapevamo della vostra esistenza solo dalle esperienze dell’Annuario”. Alcuni Testimoni mozambicani che nel 1993 erano ancora nei campi profughi della Zambia hanno detto: “Quando in Zambia venimmo a sapere che a Tete c’era una casa missionaria, facemmo tutto il possibile per ritornare e poterla vedere con i nostri occhi e per continuare il nostro servizio qui, 18 anni dopo essere stati portati a Carico”.

Il principale obiettivo di questi missionari nel Mozambico è predicare la buona notizia del Regno di Dio. Farlo è molto piacevole. I primi missionari a Maputo e a Beira ricordano: “La fame spirituale era così grande che si distribuiva ogni giorno un’enorme quantità di letteratura”. Le pubblicazioni a quattro colori della Società sono uniche in questo paese e attirano molto l’attenzione del pubblico. Le case missionarie spesso servono come centri in cui tenere gli studi biblici, dato che molti studenti sembrano preferirlo.

Attualmente ci sono sei case missionarie in tutto il paese, con 50 missionari che servono in vari incarichi. Alcuni missionari percorrono ogni mese itinerari stabiliti dalla filiale per raccogliere rapporti e consegnare corrispondenza, riviste e letteratura. In uno di questi itinerari è inclusa la località dove un tempo si trovava il Circondario di Carico a Milange.

Cosa era accaduto ai Testimoni che erano restati in quella zona, isolati dal resto dei loro fratelli?

Si apre il Circondario di Carico

Il 4 ottobre 1992 fu firmato a Roma lo storico accordo di pace fra il Frelimo e la Renamo, che pose ufficialmente fine a 16 anni di guerra civile nel Mozambico. Questo avvenimento ampiamente festeggiato permise di sollevare la cortina che aveva chiuso fuori quello che era stato il Circondario di Carico. E cosa si scoprì? Più di 50 congregazioni dei testimoni di Geova, che uscivano da un isolamento durato sette anni. Come erano sopravvissuti spiritualmente in quell’isolamento assoluto?

Nel febbraio 1994 furono intervistati a Milange 40 fratelli responsabili. Erano presenti anche un migliaio di altri che avevano percorso più di 30 chilometri a piedi solo per vedere i missionari. Gli anziani che erano rimasti dopo l’esodo raccontarono: “Dopo essere stati picchiati alla base militare, molti di noi ebbero il permesso di ritornare a vivere nelle machambas dei villaggi distrutti. In seguito la Renamo ci autorizzò a costruire Sale del Regno e a tenere le adunanze. Promisero — e mantennero la promessa — che mentre eravamo nelle nostre sale o in cammino per andare ad adorare, non saremmo stati molestati. Ma dissero che non sarebbero stati responsabili di quello che sarebbe accaduto se in un giorno di adunanza qualcuno fosse stato trovato a casa o anche fuori della Sala del Regno”. E che dire della predicazione? La loro risposta è commovente: “Senza vestiti e privi di tutto, vivevamo come bestie, ma non ci siamo dimenticati che eravamo testimoni di Geova e avevamo l’obbligo di predicare il Regno”. Che eloquente dimostrazione di apprezzamento e amore per Dio!

A un’assemblea di circoscrizione tenuta a Milange nel 1993 il sorvegliante di distretto e sua moglie assisterono a un avvenimento senza precedenti, qualcosa che confermò che quei fratelli avevano davvero continuato a fare discepoli. Quando l’oratore che pronunciava il discorso del battesimo invitò i battezzandi ad alzarsi in piedi, 505 persone su 2.023 presenti si alzarono presentandosi per il battesimo! Ma c’è dell’altro.

Il “Saulo” di Carico

Saulo di Tarso, accanito persecutore dei seguaci di Gesù Cristo nel I secolo E.V., diventò uno zelante servitore di Geova. Anche Carico ha avuto il suo “Saulo”. È un uomo dai bei lineamenti e di aspetto mite, che attualmente è servitore di ministero e pioniere regolare. Sembra che niente lo distingua dai suoi compagni di lavoro che sudano per guadagnarsi da vivere. Ma ascoltate mentre in una pausa del lavoro racconta la sua storia:

“Nel giugno 1981 la zona in cui vivevo venne occupata dal movimento di resistenza. Fui portato in caserma insieme agli altri uomini. Ci spiegarono i nobili fini della loro lotta e l’importanza di sostenere la liberazione del nostro popolo. Ricevetti un addestramento militare e partecipai ad azioni vittoriose. Questo divenne parte della mia vita per i successivi sette anni. A motivo della mia lealtà al movimento, fui promosso comandante. Comandavo sette gruppi armati. Molte regioni finirono sotto il nostro controllo, e una di queste fu Carico. Mandai un distaccamento a esplorare i villaggi in cui c’erano testimoni di Geova, per ottenere il loro appoggio. Autorizzai i miei uomini a incendiare le loro case e a ucciderne alcuni. Essi mi dissero: ‘Li uccideremo tutti, ma non li cambieremo mai’. In seguito venni trasferito in altre basi”.

Benché questo comandante non provasse alcun rimorso per aver perseguitato il popolo di Geova, Geova, nella sua misericordia, gli diede l’opportunità di cambiare. Egli spiega: “Dopo sette anni che non vedevo mia moglie, chiesi una licenza per andare a trovarla. E fu in un campo profughi nel Malawi che ebbi il primo contatto diretto con la verità. Inizialmente la respinsi. Poi, sentendo parlare del nuovo mondo, del Regno di Dio e di un mondo senza guerre, mi chiesi: ‘Uno che ha fatto tante cose cattive può ricevere tutto questo?’ La risposta che mi venne data dalla Bibbia fu: ‘Sì, avendo fede e ubbidendo a Dio’. Accettai uno studio biblico e nel giugno 1990 mi battezzai. Da allora ho fatto il pioniere, aiutando molti miei ex compagni di lotta. In un campo soltanto ho aiutato 14 persone a diventare servitori di Geova. Ho servito dove c’era maggior bisogno, e ho avuto la mia parte di sofferenze a motivo della neutralità. Sono molto grato a Geova per la sua misericordia e per non avere tenuto conto dei tempi della mia ignoranza, perdonandomi in base al sacrificio di Gesù Cristo”. (Atti 17:30) Questo è solo uno dei molti esempi che indicano perché i fratelli del Mozambico dicono così spesso, con profondo apprezzamento: “Geova è grande”. — Sal. 145:3.

Una filiale a Maputo

Chi l’avrebbe detto? È avvenuto più presto di quanto ci si aspettasse. Il Corpo Direttivo approvò l’apertura di una filiale nel Mozambico. Dal 1925, quando il minatore Albino Mhelembe portò la verità da Johannesburg, l’opera nel Mozambico era stata curata dalle filiali del Sudafrica, del Malawi e dello Zimbabwe. Finalmente il 1° settembre 1992, a Maputo, in una grande casa acquistata e rimessa a nuovo dalla Società in una zona in cui si trovano molte ambasciate, la filiale del Mozambico cominciò il suo lavoro di sorveglianza di questo vasto territorio. Iniziando con una piccola famiglia di sette persone, il Comitato di Filiale appena nominato dovette affrontare un lavoro impegnativo. Doveva organizzare l’opera nel campo, occuparsi dei bisogni spirituali — e anche materiali — dei fratelli, assisterli nella costruzione di Sale del Regno e costruire i nuovi locali della filiale. Un lavoro davvero grosso. Ma cominciarono ad arrivare gli aiuti.

Squadre di volontari internazionali venuti da varie parti del mondo stanno ora lavorando insieme ai fratelli del Mozambico per costruire i nuovi locali della filiale in una bella zona sul lungomare. La famiglia Betel stessa è cresciuta e ora conta 26 membri effettivi. Anche i fratelli e le sorelle della zona di Maputo danno una mano. Come un gruppo unito, stanno tutti lavorando per esaltare l’adorazione del vero Dio, Geova, in questa parte della terra. — Isa. 2:2.

“Continuate a tenere cari gli uomini di tale sorta”

Un lavoro impegnativo viene svolto qui anche dai sorveglianti viaggianti. Ci sono uomini come Adson Mbendera, che visitava le congregazioni nel nord e poi fece parte del Comitato O.N. nei campi; Lameck Nyavicondo, che è ricordato con riconoscenza dai fratelli della provincia di Sofala; Elias Mahenye, che venne per servire dal Sudafrica, subì atrocità e avvertì: “La PIDE è scomparsa, ma suo nonno, Satana il Diavolo, c’è ancora. Siate forti e fatevi coraggio”. (1 Piet. 5:8) Non aspettandosi una vita agiata, hanno rinunciato alle comodità che potevano avere per servire i loro fratelli.

Recentemente nella zona di Milange, dove un tempo c’erano i villaggi “prigione”, è stata stabilita una circoscrizione. I fratelli che vivono nella zona sono particolarmente grati a Geova di poter godere più pienamente dei benefìci provveduti tramite la sua organizzazione visibile. Orlando Phenga e sua moglie considerano un privilegio aver lasciato Maputo per servire lì, dove lui e migliaia di altri hanno avuto una parte nel “dramma di Carico”. A ovest della città di Tete, per aiutare a reinserirsi altri che per anni erano rimasti isolati a causa della guerra, Benjamin Jeremaiah e sua moglie viaggiano giorni interi a piedi per raggiungere luoghi dove molti non hanno mai visto un’automobile. Raymond Phiri, un fratello scapolo pieno di abnegazione, ha dovuto dormire in cima a un monte, insieme al resto della congregazione che stava servendo, per sfuggire a possibili attacchi, e là ha preparato i rapporti da inviare alla filiale. Inoltre Hans e Anita Jespersen servono il distretto che include tutto il paese e così hanno conosciuto sia la ricchezza spirituale che la miseria materiale dei loro fratelli.

Tutti questi fratelli manifestano lo spirito che indusse l’apostolo Paolo a scrivere riguardo a Epafrodito: “Continuate a tenere cari gli uomini di tale sorta”. — Filip. 2:29.

Avanti con santo zelo!

Oltre a mantenere l’integrità attraverso dure prove, i fedeli del Mozambico hanno manifestato in un altro modo il loro amore per Dio e per il prossimo. Stanno usando generosamente nel ministero pubblico la ritrovata libertà e gli abbondanti provvedimenti di Geova in quanto a riviste e altre pubblicazioni. Si può vederli predicare liberamente per le strade, nelle piazze e nei mercati come quello di Xipamanine. I risultati sono evidenti perché il numero dei lodatori di Geova cresce rapidamente.

L’aumento non è dovuto solo all’apporto dei nuovi proclamatori, ma anche al ritorno dei fratelli dai campi profughi dei paesi vicini. Sono ritornate intere circoscrizioni. Subito costruiscono nuove Sale del Regno, usando qualunque materiale disponibile. Fanno questo anche nei temporanei centri di accoglienza, come quello di Zóbuè, al confine col Malawi, e di Caboa-2, fuori di Vila Ulongue. Senza aspettare tempi migliori, molti si uniscono alle file dei pionieri. Oltre 1.900 Testimoni svolgono ora questo servizio a tempo pieno. Essi sono molto riconoscenti per l’addestramento ricevuto alla Scuola del Servizio di Pioniere, che qui ha avuto inizio nel 1992.

Riuscite a indovinare chi erano gli insegnanti di un corso tenuto di recente a Maputo, in cui quasi tutta la classe era composta da studenti che erano stati nel Circondario di Carico? Francisco Zunguza, che ha battuto il record nel Mozambico per il numero di volte che è stato imprigionato per la sua fede, ed Eugênio Macitela, che fu arrestato e inviato a Milange dopo aver studiato per una sola settimana. Entrambi attualmente sono sorveglianti di circoscrizione. E uno degli studenti era Ernesto Chilaule. Egli ricorda qualcosa che ama raccontare: “Quando passo per la strada dove si trova l’edificio della defunta PIDE, guardo quella finestra e ricordo . . . fu là che gli agenti mi dissero: ‘Sia chiaro, Chilaule: Siamo in Mozambico, e non sarete mai riconosciuti in questo paese’. Ed ecco! Poco più avanti c’è la nostra filiale legalmente riconosciuta!”

Che soddisfazione deve provare il fratello Chilaule ora che la sua piccola Alita, che mentre suo padre era nella prigione di Machava andava a prendere il cibo provveduto dalla congregazione, è la moglie di Francisco Coana, uno dei membri del Comitato di Filiale! Il fratello Coana era quello zelante pioniere di Carico che ingegnosamente “vendeva” merce fuori del campo per poter predicare. Certo Geova ha benedetto le migliaia di fedeli che, su al nord nel distretto di Milange, nel Circondario di Carico, hanno dato uno splendido esempio di amore, fede e integrità a onore e gloria di Geova. — Prov. 27:11; Riv. 4:11.

Ma la lotta non è finita. Ci sono pericoli nuovi, insidiosi. Lo spirito permissivo del mondo che si è diffuso in tutta la terra può fare vittime anche qui e le ha già fatte. L’immoralità, il materialismo e l’indifferenza causata dai tempi apparentemente più facili stanno esigendo il loro tributo. Tuttavia i fedeli servitori di Geova del Mozambico continuano con zelo a rimanere sempre vigilanti. Hanno superato tremende prove di fede. Sono decisi, con l’aiuto di Geova, a continuare a dimostrare che amano Geova con tutto il cuore, la mente, l’anima e la forza e che amano il prossimo come se stessi. Hanno incrollabile fede che presto il Regno di Dio trasformerà la terra in un paradiso, dove non solo non ci saranno più guerre né fame, ma avranno la grande gioia di riabbracciare i loro cari morti, inclusi tutti coloro che rimasero fedeli a Dio fino alla morte nel Circondario di Carico. — Prov. 3:5, 6; Giov. 5:28, 29; Rom. 8:35-39.

[Cartine a pagina 123]

(Per la corretta impaginazione, vedi l’edizione stampata)

ZAMBIA

ZIMBABWE

REP. SUDAFRICANA

MALAWI

MOZAMBICO

Tete

Milange

Carico

Mocuba

Inhaminga

Beira

Maxixe

Inhambane

Maputo

Cartina piccola: Molti fratelli furono esiliati a São Tomé, distante 3.900 chilometri, nell’Oceano Atlantico

[Immagine a tutta pagina a pagina 116]

[Immagine a pagina 131]

Ernesto Chilaule si sentì dire: “Non sarete mai riconosciuti in questo paese. . . . Dimenticatevelo!”

[Immagini alle pagine 140 e 141]

Nel campo profughi di Carico i nostri fratelli (1) tagliavano la legna e (2) pestavano l’argilla per fare mattoni, mentre (3) le sorelle portavano l’acqua. (4) Trovarono il modo di tenere assemblee. (5) Xavier Dengo, (6) Filipe Matola e (7) Francisco Zunguza offrirono aiuto spirituale come sorveglianti di circoscrizione. (8) La Sala del Regno costruita dai Testimoni del Malawi è ancora in uso

[Immagine a pagina 175]

Testimoni radunati per l’assemblea di distretto “Santa devozione” tenuta vicino a Maputo nel 1989, poco dopo il ritorno dai campi

[Immagini a pagina 177]

Sopra: Anziani e sorveglianti di circoscrizione in un posto in cui i missionari consegnano ogni mese la letteratura e la corrispondenza

Sotto: I missionari di Tete durante una lezione di chichewa

[Immagini a pagina 184]

Comitato di Filiale (da sinistra: Emile Kritzinger, Francisco Coana, Steffen Gebhardt) e prospetto della filiale ora in costruzione a Maputo