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Apocrifi

Apocrifi

Il termine greco apòkryfos compare nel suo senso originario in tre versetti biblici in riferimento a qualche cosa di “accuratamente occultato”. (Mr 4:22; Lu 8:17; Col 2:3) In relazione a scritti, in origine si riferiva a quelli che non venivano letti in pubblico e che perciò erano “occultati” ad altri. In seguito però il termine assunse il significato di spurio o non canonico, e oggi nel suo uso più comune distingue gli scritti aggiunti dichiarati parte del canone biblico dalla Chiesa Cattolica Romana nel Concilio di Trento (1546). Scrittori cattolici chiamano questi libri deuterocanonici, vale a dire “del secondo (o successivo) canone”, per distinguerli da quelli protocanonici.

Questi scritti aggiunti sono Tobia, Giuditta, Sapienza (di Salomone), Ecclesiastico (non Ecclesiaste), Baruc, 1 e 2 Maccabei, interpolazioni a Ester e tre aggiunte a Daniele: il cantico dei tre giovani, Susanna e gli anziani, e la distruzione di Bel e del dragone. La data della loro stesura è incerta, ma l’evidenza indica che non dev’essere anteriore al II o III secolo a.E.V.

Prove contro la canonicità. Anche se in qualche caso questi scritti hanno un certo valore storico, la loro pretesa canonicità è priva di fondamento. Evidentemente il canone ebraico venne completato nel V secolo a.E.V., dopo che furono scritti i libri di Esdra, Neemia e Malachia. Gli scritti apocrifi non furono mai inclusi nel canone ebraico delle Scritture ispirate e non ne fanno parte neanche oggi.

Giuseppe Flavio, storico ebreo del I secolo, dà atto solo del riconoscimento di quei libri (del canone ebraico) considerati sacri: “Non possediamo miriadi di libri incoerenti, in conflitto tra loro. I nostri libri, quelli giustamente riconosciuti, sono solo ventidue [l’equivalente dei 39 libri delle Scritture Ebraiche secondo la suddivisione attuale], e contengono la storia di tutti i tempi”. Poi si mostra chiaramente consapevole dell’esistenza dei libri apocrifi e della loro esclusione dal canone ebraico, aggiungendo: “Dal tempo di Artaserse fino al nostro è stata scritta una storia completa, ma non è stata ritenuta dello stesso valore dei documenti precedenti, perché manca l’esatta successione dei profeti”. — Contro Apione, I, 38, 41 (8).

Inclusi nella “Settanta”. Gli argomenti a favore della loro canonicità si basano generalmente sul fatto che questi scritti apocrifi si trovano in molte antiche copie della Settanta, traduzione delle Scritture Ebraiche in greco, iniziata in Egitto verso il 280 a.E.V. Comunque, dato che non esistono copie originali della Settanta, non si può affermare categoricamente che vi fossero originariamente inclusi i libri apocrifi. Si ammette che molti, forse quasi tutti gli Apocrifi, furono scritti dopo l’inizio della traduzione della Settanta e quindi non potevano far parte dell’originario elenco dei libri scelti per essere tradotti. Nel migliore dei casi si potevano considerare solo delle aggiunte alla traduzione originaria.

Inoltre, mentre gli ebrei di lingua greca di Alessandria finirono per inserire questi scritti apocrifi nella Settanta greca e a quanto pare li considerarono parte di un ampliato canone di scritti sacri, le già citate parole di Giuseppe Flavio indicano che non furono mai inclusi nel canone palestinese o di Gerusalemme e, al massimo, erano considerati solo come scritti di secondaria importanza e non di origine divina. Infatti il concilio ebraico di Jamnia (verso il 90 E.V.) escluse categoricamente tali scritti dal canone ebraico.

La necessità di tener conto dell’opinione ebraica al riguardo è chiaramente affermata dall’apostolo Paolo in Romani 3:1, 2.

Altre testimonianze antiche. Una delle principali prove estrinseche della non canonicità degli Apocrifi è il fatto che nessuno degli scrittori biblici cristiani abbia mai citato questi libri. Anche se questa di per sé non è una prova conclusiva, in quanto nei loro scritti mancano anche citazioni di alcuni libri di riconosciuta canonicità, quali Ester, Ecclesiaste e Cantico dei Cantici, è degno di nota che nessuno degli scritti inclusi negli Apocrifi sia citato neanche una volta.

E non è senza peso il fatto che eminenti studiosi biblici e “padri della chiesa” dei primi secoli dell’era volgare, nel complesso, attribuissero agli Apocrifi un’importanza minore. Origene, all’inizio del III secolo E.V., dopo accurati studi fece una netta distinzione fra questi scritti e quelli del vero canone. Atanasio, Cirillo di Gerusalemme, Gregorio di Nazianzo e Anfilochio, tutti del IV secolo E.V., compilarono cataloghi degli scritti sacri seguendo il canone ebraico e ignorando questi scritti aggiunti o considerandoli di secondaria importanza.

Girolamo, che è definito “il migliore studioso di ebraico” della chiesa primitiva e che nel 405 E.V. portò a termine la Vulgata latina, prese decisamente posizione contro tali libri apocrifi, anzi fu il primo a usare il termine “apocrifi” nel senso di non canonici in riferimento a questi scritti. Infatti nel prologo ai libri di Samuele e Re, Girolamo elenca i libri ispirati delle Scritture Ebraiche seguendo il canone ebraico (nel quale i 39 libri sono raggruppati in 22) e poi dice: “Ci sono ventidue libri . . . Questo prologo delle Scritture può concorrere per così dire alla difesa di tutti i libri che traduciamo dall’ebraico in latino: affinché siamo in grado di sapere che tutto ciò che è al di fuori va incluso negli apocrifi”. (J. P. Migne, Patrologia latina, vol. 28, coll. 600, 601) Scrivendo a una donna di nome Leta a proposito dell’educazione della figlia, Girolamo consigliava: “Stia bene attenta a tutti quanti i libri apocrifi. Se qualche volta avesse intenzione di consultarli, non per trarne verità dogmatiche ma solo per contemplarne devotamente i simboli, sappia che gli autori non sono quelli che figurano nelle rispettive intestazioni e che ci sono frammischiati non pochi elementi falsi, per cui occorre una grande prudenza per discernere l’oro nel fango”. — Le lettere, Roma, 1962, vol. III, p. 274.

Opinioni cattoliche differenti. La tendenza a includere questi scritti aggiunti come se fossero canonici ebbe inizio con Agostino (354-430 E.V.), anche se in opere successive lui stesso riconobbe che c’era una netta distinzione fra i libri del canone ebraico e questi altri libri. Tuttavia la Chiesa Cattolica, seguendo l’esempio di Agostino, incluse questi altri scritti nel canone dei libri sacri stabilito dal Concilio di Cartagine nel 397 E.V. Solo molto più tardi, però, nel 1546, al Concilio di Trento, la Chiesa Cattolica Romana confermò definitivamente l’inclusione di queste aggiunte nel suo catalogo dei libri biblici, azione ritenuta necessaria per il fatto che, anche all’interno della chiesa, i pareri su questi libri erano ancora discordi. John Wycliffe, sacerdote cattolico e studioso che, con l’ulteriore aiuto di Nicholas di Hereford, nel XIV secolo fece la prima traduzione della Bibbia in inglese, incluse gli Apocrifi nella sua opera, ma nella prefazione a questa traduzione dichiarò tali scritti “senza autorità di fede”. Anche il domenicano cardinal Caetano, eminente teologo cattolico dell’epoca (1469-1534), definito da Clemente VII “luminare della Chiesa”, fece distinzione fra i libri del vero canone ebraico e le opere apocrife, citando gli scritti di Girolamo come autorità.

Si noti inoltre che il Concilio di Trento non accettò tutti gli scritti già approvati dal precedente Concilio di Cartagine ma ne scartò tre: la preghiera di Manasse e 1 e 2 Esdra (non il 1 e 2 Esdra che in alcune versioni cattoliche corrispondono a Esdra e Neemia). Così questi tre scritti, che per oltre 1.100 anni avevano fatto parte della Vulgata latina, versione che aveva l’approvazione ecclesiastica, furono ora esclusi.

Prove intrinseche. Le prove intrinseche della non canonicità di questi scritti apocrifi hanno ancora più peso di quelle estrinseche. Manca completamente l’elemento profetico. Il contenuto e gli insegnamenti a volte contraddicono quelli dei libri canonici e sono inoltre contraddittori in se stessi. Sono pieni di inesattezze storiche e geografiche e di anacronismi. In alcuni casi gli scrittori si rendono colpevoli di disonestà attribuendo falsamente le proprie opere a scrittori ispirati precedenti. Dimostrano di aver subìto l’influenza greca pagana, e a volte ricorrono a stravaganze di linguaggio e a uno stile letterario del tutto estranei alle Scritture ispirate. Due degli scrittori ammettono di non essere ispirati. (Vedi il Prologo di Ecclesiastico; 2 Maccabei 2:24-32; 15:38-40, Ri). Quindi si può ben dire che le migliori prove della non canonicità degli Apocrifi sono gli Apocrifi stessi. Segue un esame dei singoli libri:

Tobia. Storia di Tobi, pio ebreo della tribù di Neftali, che viene deportato a Ninive e diventa cieco a causa degli escrementi di uccello cadutigli negli occhi. Egli invia il figlio Tobia in Media a riscuotere un debito, e Tobia viene condotto a Ecbatana (Rages, secondo alcune versioni) da un angelo in forma umana. Per via si procura il cuore, il fegato e il fiele di un pesce. Incontra una vedova che, pur avendo avuto sette mariti, è rimasta vergine perché ogni marito è stato ucciso la notte delle nozze da Asmodeo, lo spirito del male. Incoraggiato dall’angelo, Tobia sposa la vergine vedova e scaccia il demonio bruciando il cuore e il fegato del pesce. Tornato a casa ridà la vista al padre mediante il fiele del pesce.

La storia in origine fu scritta probabilmente in aramaico, si pensa verso il III secolo a.E.V. Ovviamente non è ispirata da Dio a motivo delle superstizioni e degli errori presenti nella narrazione. Una delle sue imprecisioni è la seguente: viene affermato che in gioventù Tobi vide la rivolta delle tribù settentrionali, avvenuta nel 997 a.E.V. dopo la morte di Salomone (Tobia 1:4, 5, Ti), e in seguito fu pure deportato a Ninive con la tribù di Neftali nel 740 a.E.V. (Tobia 1:11-13, Ti) Quindi sarebbe vissuto più di 257 anni. Eppure Tobia 14:1-3 (Ti) dice che morì a 102 anni.

Giuditta. Storia di una bella vedova ebrea della città di “Betulia”. Nabucodonosor invia Oloferne, comandante del suo esercito, a compiere una campagna in occidente per distruggere ogni culto tranne quello di Nabucodonosor stesso. Gli ebrei vengono assediati a Betulia, ma Giuditta finge di aver tradito la causa degli ebrei e viene ammessa nell’accampamento di Oloferne, dove gli dà false notizie circa le condizioni della città. A un banchetto, durante il quale Oloferne si ubriaca, lei riesce a decapitarlo con la sua stessa spada e poi ritorna a Betulia con la sua testa. L’indomani mattina nell’accampamento nemico regna la confusione, e gli ebrei riportano una schiacciante vittoria.

Nella sua introduzione al libro di Giuditta una traduzione cattolica, la Nuovissima Versione della Bibbia (NVB, pp. 15, 16), osserva come il suo autore “non si curi di essere preciso nel descrivere i luoghi, le persone e gli avvenimenti, ma faccia largamente uso della propria fantasia”. Tra le incoerenze rilevate dall’introduzione c’è questa: viene dichiarato che gli avvenimenti accaddero durante il “regno di Nabucodonosor, che regnò sugli Assiri nella grande città di Ninive”. (Giuditta 1:1, 7 [1:5, 10, Ti]) L’introduzione e le note in calce di questa traduzione fanno osservare che Nabucodonosor era re di Babilonia e non regnò mai a Ninive, dal momento che Ninive era stata precedentemente distrutta da suo padre Nabopolassar.

A proposito degli spostamenti dell’esercito di Oloferne, la stessa introduzione suppone che “si tratti di una marcia immaginaria”. E un dizionario biblico osserva: “La storia è inventata di sana pianta: altrimenti le sue inesattezze sarebbero incredibili”. — The Illustrated Bible Dictionary, a cura di J. D. Douglas, 1980, vol. 1, p. 76.

Si pensa che il libro sia stato scritto in Palestina nel periodo greco verso la fine del II secolo o l’inizio del I secolo a.E.V. Si ritiene sia stato scritto originariamente in ebraico.

Aggiunte al libro di Ester. Si tratta di sei brani aggiunti. Il primo, di 17 versetti, che in alcuni antichi testi greci e latini precede il primo capitolo (Est 11:2–12:6, Ti), descrive un sogno di Mardocheo e la sua denuncia di un complotto contro il re. Il secondo, che segue 3:13 (13:1-7, Ti), riporta il testo dell’editto del re contro gli ebrei. Il terzo, alla fine del capitolo 4 (13:8–14:19, Ti), contiene preghiere di Mardocheo e di Ester. Il quarto segue 5:2 (15:1-19, Ti) e narra l’udienza di Ester con il re. Il quinto, collocato dopo 8:12 (16:1-24, Ti), consiste nel decreto del re che consentiva agli ebrei di difendersi. Alla fine del libro (10:4–11:1, Ti) c’è l’interpretazione del sogno narrato nell’introduzione apocrifa.

La collocazione di questi brani aggiunti varia nelle diverse traduzioni: alcune li pongono alla fine del libro (come aveva fatto Girolamo nella sua traduzione) mentre altre li inseriscono nel testo canonico.

Dal primo di questi brani apocrifi risulterebbe che Mardocheo sarebbe stato fra i prigionieri deportati da Nabucodonosor nel 617 a.E.V. e, oltre un secolo più tardi, nel secondo anno di Assuero (gr. Artaserse), sarebbe stato un personaggio importante alla corte del re. L’affermazione che Mardocheo occupasse una posizione così importante già all’inizio del regno di Assuero contraddice la parte canonica di Ester. Si ritiene che le aggiunte apocrife siano opera di un ebreo egiziano e siano state scritte nel II secolo a.E.V.

Sapienza (di Salomone). Trattato che esalta i benefìci derivanti dal ricercare la sapienza divina. La sapienza è personificata come una donna celestiale, e nel testo è inclusa la preghiera di Salomone per avere sapienza. L’ultima parte riassume la storia da Adamo alla conquista di Canaan, traendone esempi di benedizioni per la sapienza e di calamità per la mancanza di essa. Si parla di quanto sia stolto adorare immagini.

Pur non menzionandolo direttamente per nome, in certi versetti il libro presenta Salomone come l’autore. (Sapienza 9:7, 8, 12) Ma vengono citati brani di libri biblici scritti secoli dopo la morte di Salomone (ca. 998 a.E.V.), citati dalla Settanta greca, traduzione iniziata verso il 280 a.E.V. Si ritiene che lo scrittore fosse un ebreo di Alessandria d’Egitto che scrisse verso la metà del I secolo a.E.V.

Lo scrittore manifesta una notevole dimestichezza con la filosofia greca. Ricorre alla terminologia platonica nell’esporre la dottrina dell’immortalità dell’anima umana. (Sapienza 2:23; 3:2, 4) Sono presenti altri concetti pagani come la preesistenza dell’anima umana e l’idea che il corpo sia d’impedimento all’anima. (8:19, 20; 9:15) La narrazione degli avvenimenti storici da Adamo a Mosè è abbellita da molti particolari fantastici, spesso in disaccordo col testo canonico.

Per quanto alcune opere cerchino di trovare delle analogie tra brani di questo libro apocrifo e i successivi libri delle Scritture Greche Cristiane, la somiglianza è spesso minima e, anche se fosse più consistente, non indicherebbe affatto che gli scrittori cristiani abbiano attinto a questa opera apocrifa, ma piuttosto che abbiano attinto alle Scritture Ebraiche canoniche, a cui attinse anche lo scrittore di questo libro apocrifo.

Ecclesiastico. Questo libro, chiamato anche “Sapienza di Gesù figlio di Sirac”, si distingue essendo il più lungo dei libri apocrifi e l’unico di cui si conosca l’autore: Gesù ben-Sirac di Gerusalemme. Lo scrittore si dilunga sulla natura della sapienza e sulla sua utilità per avere successo nella vita. Il libro dà grande risalto all’osservanza della Legge. Contiene svariati consigli riguardanti le buone maniere e la vita quotidiana, fra cui osservazioni su come comportarsi a tavola e in viaggio, e sui sogni. L’ultima parte è una rassegna di importanti personaggi di Israele, che termina col sommo sacerdote Simone II.

In contrasto con le parole di Paolo in Romani 5:12-19, che attribuiscono ad Adamo la responsabilità del peccato, Ecclesiastico dice: “Dalla donna ebbe principio il peccato, e per lei moriamo tutti”. (25:33, Ti) Inoltre lo scrittore preferisce “qualunque malizia, ma non la malizia della donna”. — 25:19, Ti.

Il libro fu scritto originariamente in ebraico all’inizio del II secolo a.E.V. È citato nel Talmud ebraico.

Baruc (inclusa l’epistola di Geremia). I primi cinque capitoli vengono presentati come scritti da Baruc, scriba e amico di Geremia; il sesto capitolo è presentato invece come una lettera scritta da Geremia stesso. Il libro riporta le espressioni di pentimento e le invocazioni d’aiuto degli ebrei esiliati in Babilonia, esorta a seguire la sapienza, incoraggia a sperare nella liberazione promessa e denuncia l’idolatria babilonica.

Viene detto che Baruc si trovava in Babilonia (Baruc 1:1, 2), mentre la Bibbia indica che andò in Egitto, come Geremia, e non ci sono prove che sia mai stato in Babilonia. (Ger 43:5-7) Contrariamente alla profezia di Geremia che la desolazione di Giuda durante l’esilio in Babilonia sarebbe durata 70 anni (Ger 25:11, 12; 29:10), Baruc 6:2 dice agli ebrei che rimarranno in Babilonia per sette generazioni e poi saranno liberati.

Girolamo, nella prefazione al libro di Geremia, dice: “Non ho ritenuto valesse la pena tradurre il libro di Baruc”. L’introduzione al libro nella versione della CEI dice che lo scritto ha visto la luce verso il III-II sec. a.C.; quindi l’autore non può essere Baruc. La lingua originaria era probabilmente l’ebraico.

Il cantico dei tre giovani. Questa aggiunta a Daniele vien fatta seguire a Daniele 3:23. Consiste di 67 versetti (in alcune versioni 40) che riporterebbero una preghiera pronunciata, si suppone, da Azaria nella fornace ardente, seguita dalla storia di un angelo che avrebbe estinto le fiamme, e infine da un cantico cantato dai tre ebrei dentro la fornace. Il cantico è molto simile al Salmo 148. I riferimenti al tempio, ai sacerdoti e ai cherubini, però, non corrispondono al tempo a cui questa aggiunta pretende di riferirsi. Può darsi che sia stata scritta originariamente in ebraico ed è ritenuta del I secolo a.E.V.

Susanna e gli anziani. Questa breve storia riferisce un episodio della vita della bella moglie di Ioachim, ricco ebreo di Babilonia. Mentre fa il bagno, Susanna viene avvicinata da due anziani ebrei che la sollecitano ad avere rapporti sessuali con loro e, al suo rifiuto, la accusano falsamente di adulterio. Al processo viene condannata a morte, ma il giovane Daniele smaschera accortamente i due anziani, e Susanna è scagionata. Non si sa quale fosse la lingua originale. Si pensa sia stata scritta nel I secolo a.E.V. Nella Settanta greca era inserita prima del libro canonico di Daniele, mentre nella Vulgata latina veniva dopo. Alcune versioni la includono come un 13º capitolo di Daniele.

Bel e il dragone. Questa è la terza aggiunta a Daniele, considerata da alcune versioni un 14º capitolo. Nella storia il re Ciro esige che Daniele adori un idolo del dio Bel. Cospargendo di cenere il pavimento del tempio e scoprendo così delle impronte, Daniele dimostra che il cibo che si supponeva mangiato dall’idolo in realtà veniva consumato dai sacerdoti pagani e dalle loro famiglie. I sacerdoti vengono uccisi e Daniele distrugge l’idolo. Il re chiede a Daniele di adorare un dragone vivo. Daniele uccide il dragone, ma la popolazione infuriata getta Daniele nella fossa dei leoni. Durante i sette giorni di prigionia, un angelo prende Abacuc per i capelli e trasporta lui e un piatto di minestra dalla Giudea a Babilonia per dare da mangiare a Daniele. Abacuc viene quindi riportato in Giudea, Daniele viene liberato dalla fossa, e i suoi avversari vi vengono gettati dentro e divorati. Anche quest’aggiunta è ritenuta del I secolo a.E.V. Queste aggiunte a Daniele sono state definite “pie leggende”. — The Illustrated Bible Dictionary, vol. 1, p. 76.

Primo Maccabei. Storia della lotta degli ebrei per l’indipendenza nel II secolo a.E.V., dall’inizio del regno di Antioco Epifane (175 a.E.V.) alla morte di Simone Maccabeo (ca. 134 a.E.V.), in particolare delle imprese del sacerdote Mattatia e dei suoi figli, Giuda, Gionatan e Simone, contro i siri.

Questo è il più pregevole dei libri apocrifi per le informazioni storiche su questo periodo. Tuttavia, come osserva The Jewish Encyclopedia (1976, vol. VIII, p. 243), questa “storia è scritta da un punto di vista umano”. Come le altre opere apocrife, non faceva parte dell’ispirato canone ebraico. Fu evidentemente scritto in ebraico verso la fine del II secolo a.E.V.

Secondo Maccabei. Benché collocato dopo 1 Maccabei, si riferisce in parte allo stesso periodo (ca. 180-160 a.E.V.) ma non è opera dello stesso autore di 1 Maccabei. Lo scrittore presenta il libro come un sommario di precedenti opere di un certo Giasone di Cirene. Descrive le persecuzioni degli ebrei sotto Antioco Epifane, il saccheggio del tempio e la successiva ridedicazione.

Si parla di Geremia che, alla distruzione di Gerusalemme, avrebbe portato il tabernacolo e l’arca del patto in una caverna del monte da cui Mosè aveva visto il paese di Canaan. (2 Maccabei 2:1-16) Il tabernacolo naturalmente era stato sostituito dal tempio circa 420 anni prima.

Diversi versetti vengono citati dai cattolici per sostenere dottrine come quella del castigo dopo la morte (2 Maccabei 6:26) e dell’intercessione dei santi (15:12-16), e la correttezza di pregare per i morti (12:41-46, Ti).

Nella sua introduzione al libro di 2 Maccabei, la Nuovissima Versione della Bibbia (NVB, pp. 26, 27) dice che il suo stile e vocabolario, “pur avvicinandosi moltissimo a quello di scrittori ellenistici . . . è ricchissimo e ricercato”, adatto a “chi ama il linguaggio sonoro e ampolloso”. Lo scrittore di 2 Maccabei non pretende affatto di scrivere sotto ispirazione divina, anzi dedica parte del secondo capitolo a spiegare la sua scelta di un particolare metodo per trattare il soggetto. (2 Maccabei 2:24-33, Ri) E così conclude la sua opera: “Anch’io finirò qui il mio discorso. Il quale se procede bene, e come si conviene ad una storia, è quello che anch’io vorrei; se invece è riuscito meno conveniente, mi si perdoni”. — 2 Maccabei 15:38, 39, Ri.

A quanto pare il libro fu scritto in greco tra il 134 a.E.V. e la caduta di Gerusalemme nel 70 E.V.

Scritti apocrifi successivi. In particolare dal II secolo E.V. in poi un’enorme quantità di scritti ha vantato ispirazione divina e canonicità e preteso di rappresentare la fede cristiana. Spesso chiamati “Apocrifi del Nuovo Testamento”, rappresentano dei tentativi di imitare i Vangeli, gli Atti, le lettere, e le rivelazioni contenute nei libri canonici delle Scritture Greche Cristiane. In gran parte si conoscono solo attraverso frammenti, citazioni o allusioni fatte da altri scrittori.

Questi scritti sono chiaramente un tentativo di provvedere informazioni che gli scritti ispirati omettono deliberatamente, come le attività e gli avvenimenti relativi alla vita di Gesù dalla sua prima infanzia fino al battesimo, o di sostenere dottrine o tradizioni che non trovano alcun fondamento nella Bibbia o sono in contrasto con la stessa. Infatti il cosiddetto Vangelo dell’infanzia di Tommaso e il Protovangelo di Giacomo sono pieni di racconti fantastici sui presunti miracoli compiuti da Gesù nella sua infanzia. Ma l’effetto generale è un’immagine falsata di Gesù, che appare come un bambino capriccioso e petulante, dotato di poteri straordinari. (Cfr. l’autentico racconto di Lu 2:51, 52). Gli “Atti” apocrifi, come gli “Atti di Paolo” e gli “Atti di Pietro”, danno grande importanza alla completa astinenza dai rapporti sessuali e persino descrivono gli apostoli che esortano le donne a separarsi dal marito, contraddicendo così gli autentici consigli di Paolo in 1 Corinti 7.

Di tali scritti apocrifi subapostolici, l’Introduzione generale della versione della Bibbia a cura di Giuseppe Ricciotti (Ri, p. 14) dice: “Quanto ai concetti di questi scritti apocrifi, si può dire che in gran parte dipendono dai libri canonici: quando poi se ne distaccano, anche se non cadono in tendenziosità ed eresie, declinano in puerilità meschine oppure si perdono in fantasticherie ridicole”.

Come i più antichi libri apocrifi furono esclusi dalle precristiane Scritture Ebraiche, così anche gli scritti apocrifi successivi non furono accettati come ispirati né inclusi come canonici nei più antichi cataloghi o collezioni delle Scritture Greche Cristiane. — Vedi CANONE.